Sognando l’Europa

Migranti, le peripezie di chi si affida a un “topo”

Tra Francia e Spagna - Il treno che collega i due Stati ha il soprannome di un roditore. Sui vagoni gli agenti compiono le retate. Per evitare i controlli, i richiedenti asilo corrono sempre più rischi: come camminare di notte sulle rotaie

Di Nejma Brahim
8 Novembre 2021

Cinque migranti algerini sono stati travolti da un treno nelle prime ore del mattino, il 12 ottobre scorso, nei pressi della stazione di Saint-Jean- de-Luz. Tre sono morti. Un quarto migrante, che è rimasto gravemente ferito ma ora è fuori pericolo, ha raccontato agli inquirenti che, per evitare i controlli della polizia, avevano deciso di fermarsi lungo i binari per riposarsi e che poi si sono addormentarti.

Il quinto, i cui documenti di identità sono stati trovati sul posto, aveva preso la fuga, prima di essere ritrovato due giorni dopo a Bayonne. “I migranti che partono di notte attraversano il confine intorno alle 23 e arrivano qui tra le 3 e le 4 del mattino. Preferiscono seguire la ferrovia perché i controlli di polizia sono quasi quotidiani sulle rotatorie tra Hendaye e Saint-Jean-de-Luz”, spiega Line, presidente dell’associazione Elkartasuna Larruna (che in basco vuol dire Solidarietà lungo la Rhune, il massiccio dei Pirenei attraversato dalla linea di frontiera franco-spagnola). Per Peio Etcheverry-Ainchart, che ha contribuito a fondare l’associazione, nel 2018, ed è impegnato politicamente a livello locale, nell’opposizione, il dramma recente riflette la realtà quotidiana dei migranti nei Paesi Baschi: “Non seguirebbero i binari se si sentissero al sicuro nei trasporti pubblici e nelle strade – osserva –. Questi drammi purtroppo sono destinati a ripetersi. Le responsabilità dei politici locali della maggioranza sono immense, è una vergogna”. Trecento persone si sono radunate il giorno dopo la tragedia per rendere omaggio alle vittime. Il sindaco non era presente: “La città rifiuta tutte le nostre richieste di sovvenzioni”, spiega Line. La sua preoccupazione? “Che di questi giovani che muoiono alla frontiera non si parli più, come succede a Calais e al confine franco-italiano”. L’associazione conta una trentina di volontari. Tra loro, Guillaume lavora nel quartiere della stazione: “Sabato ho raccolto per strada due migranti, a tarda notte. Erano sfiniti, infreddoliti”. Dopo aver dato loro da mangiare, verso le 2 del mattino, li ha accompagnati al Pausa, il centro di accoglienza per i migranti di Bayonne. Diversi altri migranti erano arrivati quella sera: “Mi è già capitato di gestire fino a 40 persone allo stesso tempo, donne con bebè, bambini, giovani. Quante volte non ho potuto fare a meno di piangere”, racconta. Nel quartiere i controlli della polizia sono sistematici. “La settimana scorsa – continua –, l’autista di un autobus ha chiamato gli agenti quando dei migranti sono saliti a bordo. È disgustoso”. Alla stazione ferroviaria di Hendaye, al confine franco-spagnolo, molti migranti vengono fermati all’arrivo del “Topo”, il treno regionale che collega Hendaye alla città spagnola di San Sebastián, e riconsegnati alle autorità spagnole. “Gli agenti conoscono gli orari del Topo e dei treni provenienti da Irun. Arrivano un po’ prima del treno, si appostano lungo i binari e procedono ai controlli”, racconta Miren. Da quasi tre anni, l’associazione Bidasoa Etorkinekin, dove la giovane donna lavora come volontaria, accoglie i migranti che sono riusciti ad attraversare il confine e li accompagna fino a Bayonne. Intorno alla stazione, molte strade sono state transennate. Sul ponte di Santiago, che collega Hendaye a Irun, dei blocchi di polizia impediscono ai migranti di passare. Tutti i pullman, osserva uno dei volontari, vengono fermati e i passeggeri controllati uno per uno. Il 12 giugno scorso, su iniziativa del LAB, il sindacato socio-politico basco, un centinaio di manifestanti si sono riuniti a Irun e ad Hendaye per denunciare la “militarizzazione” del confine.

“In una logica di disobbedienza civile, abbiamo fatto entrare sei migranti mescolati ai manifestanti”, racconta Eñaut, responsabile dell’organizzazione sindacale per i Paesi Baschi del nord. Per lui “il dramma di Saint-Jean-de-Luz è il risultato di una politica migratoria razzista”. Martedì scorso, alle 22, Maite, Arantza e Jaiona, volontari dell’associazione Gau Txori (gli “Uccelli notturni”), si sono ritrovati al capolinea dei pullman di Irun, in Spagna. Da più di tre anni, in tarda serata, accolgono i migranti all’arrivo dei pullman per accompagnarli al centro di accoglienza gestito dalla Cruz Roja (la Croce Rossa spagnola), a un paio di chilometri da lì. Durante il giorno, delle impronte di passi disegnate per terra, con il simbolo della croce rossa, servono a guidare i migranti fino al centro. Ma, di notte, è difficile distinguere le impronte sull’asfalto. “La scorsa settimana i migranti erano così tanti che la Croce Rossa non è riuscita ad occuparsi di tutti – racconta Jaiona –. Già, in circostanze normali, il centro può ospitare solo cento persone per un massimo di tre giorni. Quando portiamo da loro altri migranti, alcuni rischiano di restare fuori e allora dobbiamo installare delle tende”. L’ultimo pullman arriva alle 23:10. Un uomo estrae dal portabagagli la sua valigia e poi aiuta una ragazzina a prendere la sua. L’adolescente sembra disorientata. “Cruz Roja?”, le chiedono i tre volontari. Maite l’aiuta con la borsa, mentre Jaiona la rassicura: “No te preocupes, somos voluntarios”. La giovane, Mariem, ha solo 15 anni. Arriva da Madrid, dove ha trascorso un mese dopo essere stata trasferita in aereo da Fuerteventura, un’isola delle Canarie, verso il continente e, come tante altre persone nelle ultime settimane, ha poi proseguito il viaggio verso nord. La mattina dopo, diversi migranti stanno seduti sulle panchine della piazza del comune di Irun. Tutti i giorni, dalle 10 alle 12, i volontari dell’associazione Irungo Harrera Sarea vengono qui per fornire loro consigli e informazioni. “Chi vuole restare in Spagna?”, chiede Ion, uno dei volontari. Nessuno alza la mano. “Ero riuscita ad attraversare il confine, ma la polizia mi ha fermata sull’autobus e mi ha rimandato in Spagna”, racconta Fatima, la sola donna del gruppo. Ion racconta di un uomo che è stato respinto otto volte alla frontiera: “Ma alla fine è riuscito a passare”. Anche questi migranti sfideranno la fortuna nel pomeriggio. Nello stesso momento, alcuni giovani magrebini ammazzano il tempo sul parcheggio che si trova davanti al ponte di Santiago: “Sono in Europa da otto anni e ancora non ho i documenti”, racconta Younes, giovane marocchino che vive da un mese in un centro di accoglienza a Irun. Tutti i giorni lui e gli altri vedono decine di migranti che tentano di attraversare il ponte.

“Gli algerini morti a Saint- Jean-de-Luz erano passati per di qua – racconta Mokhtar -. Erano rimasti nel nostro centro per qualche tempo. Prima che attraversassero il confine, avevo dato loro quattro sigarette per il viaggio. Erano partiti di notte, seguendo i binari. Questo confine è uno dei più difficili da attraversare in Europa”.

Le famiglie delle vittime sono spesso lasciate per giorni senza informazioni, nell’incertezza. “È una tortura per i familiari”, osserva un volontario. Solo alcuni giorni dopo il dramma del 12, la procura di Bayonne ha potuto identificare le tre vittime, anche grazie ai parenti che, nel terribile dubbio, si erano rivolti alla polizia. La Moschea di Irun ha a sua volta svolto un ruolo chiave: “Siamo stati in contatto con le famiglie e il consolato dell’Algeria, che ha gestito quasi tutto. I corpi sono stati rimpatriati in Algeria il 30 ottobre”, ci viene spiegato dalla Moschea. Seduti su una panchina, due fratelli siriani, di 20 e 14 anni, hanno in mano il biglietto del Topo. Raccontano di essere stati fermati quattro volte a bordo del treno perché non avevano i documenti di identità. Che la loro madre e la sorella, entrambe rifugiate in Francia, li aspettano a Parigi da due anni. Due giorni dopo, li ritroviamo in un gruppo di migranti al centro Pausa di Bayonne. Era riusciti a passare: “Stiamo aspettando il pullman per Parigi, io e mio fratello partiamo stasera”, conferma M. È l’ultima tappa del viaggio, ma anche questa comporta dei rischi: alcuni conducenti dei pullman non chiedono i documenti, ma altri sì.

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