L'intervista

Scuola, welfare, banche dati: quel che serve a fermare la violenza sulle donne

Elisa Ercoli, presidente di Differenza Donna: “Il lockdown è stato un periodo terribile, ma la situazione dopo non è migliorata di molto: abbiamo toccato il tasso di disoccupazione femminile più alto d'Europa, dopo la Grecia. Ora lavoriamo a un nuovo Piano triennale che preveda interventi sistemici. Contro gli uomini maltrattanti deve cambiare la mentalità di tutti”

6 Gennaio 2021

Primo obiettivo del 2021: “Con la Presidenza del Consiglio dei Ministri, con il Cnr e l’Istat, stiamo elaborando un nuovo Piano nazionale triennale antiviolenza. Puntiamo a un intervento sistemico, perché violenza e discriminazioni si contrastano soltanto agendo su più livelli”.

Secondo obiettivo del 2021: “L’istituzione di database, che consentano di monitorare in tempo reale il numero dei femminicidi, delle violenze in famiglia, dei procedimenti penali. Al momento si fa fatica anche a reperire le sentenze”.

Un bilancio del 2020 lo facciamo noi: meno male che c’erano loro. Elisa Ercoli è la presidente di Differenza Donna, una onlus che dal 1989 a Roma si occupa di donne maltrattate (anche attraverso la gestione di case rifugio) e più in generale di discriminazioni di genere.

Quello che si è appena concluso è stato un anno terribile: dapprima costrette al lockdown per la pandemia da covid, e quindi recluse in casa con i propri aguzzini, poi rimaste senza impiego e senza indipendenza economica, le donne hanno pagato il prezzo più alto delle misure di contenimento.

L’effetto della chiusura è stato immediato: nelle prime due settimane di lockdown abbiamo registrato un crollo dell’85% delle chiamate ai centri antiviolenza. Ci è stato subito chiaro che le donne, essendo sotto controllo 24 ore su 24, non potevano utilizzare lo strumento del telefono per chiedere aiuto, a noi o alle forze dell’ordine. Quindi ci siamo attivate, potenziando la messaggistica su tutti i canali social e facendo girare cartelli che spiegavano come fare.

Ed è andata meglio?

A partire dalla terza settimana di isolamento, hanno ricominciato a chiamare le donne più a rischio.

Come fate a capire qual è il livello di rischio?

Tempo fa, grazie al progetto europeo “Dafne”, abbiamo introdotto lo strumento “Sara”, oggi utilizzato anche dalla Polizia: è un test semplice, che ci permette di misurare l’escalation della violenza, l’intensità e la frequenza di un evento o di un comportamento maschile, la “recidiva”. Così, scientificamente, il rischio viene diviso in fasce: bassa, media e alta.

Con le donne che rischiavano la vita, allora, che avete fatto?

Il Tribunale di Roma ci aveva assegnato alcune case confiscate alla criminalità e a maggio il Dipartimento Pari Opportunità ha messo al bando dei fondi straordinari per la creazione di nuovi posti: così abbiamo potuto salvare quelle vite, facendo rispettare la quarantena fiduciaria e il distanziamento dalle altre ospiti. Non abbiamo mai chiuso, neanche un minuto, perché sappiamo che i centri sono un pronto soccorso.

Una volta terminato il lockdown, la situazione si è “normalizzata” (se di normalità si può parlare, in un Paese in cui viene ammazzata una donna ogni tre giorni)?

Hanno ricominciato a chiamare, sì. Ma il problema adesso è un altro: le donne sono diventate più attaccabili, vulnerabili, ricattabili, perché hanno perso il lavoro. Abbiamo toccato il tasso di disoccupazione femminile più alto d’Europa, dopo la Grecia. E invece l’indipendenza economica è l’elemento fondamentale per uscire dalla violenza. Per questo stiamo chiedendo al governo di investire le risorse del Next Generation Eu sull’occupazione femminile.

Questo vale per tutte, non solo per chi subisce maltrattamenti.

Certo, bisogna avere una base solida che garantisca a tutte una piena cittadinanza attraverso il lavoro. Solo così avremo la forza e la capacità di reinserire anche coloro che escono da situazioni di violenza. E poi dobbiamo insistere su un’altra questione: l’accesso alle informazioni.

Parla del numero verde e della possibilità di denunciare?

Parlo degli stereotipi da sfatare: colei che subisce un maltrattamento è obbligata a credere al potere dell’uomo, ma mica lo fa per dogma, lo vive sulla sua pelle. Allora è fondamentale che un soggetto terzo bilanci, attraverso le informazioni e la conoscenza, questa disparità di potere. Le donne hanno il diritto di sapere che esiste un percorso alternativo. Nessuna di loro farà il balzo senza conoscere dove andare, come vivere, se ci sarà protezione. E ciò vale a maggior ragione se ha figli.

La vedo dura in un Paese in cui ancora “il papà lavora, la mamma stira”.

Proprio per questo serve un intervento di genere che sia sistemico. Significa una rivoluzione linguistica (con la declinazione al femminile delle professioni, per esempio), ma soprattutto l’accesso al mondo del lavoro, un piano di infrastrutture, una differente divisione dei ruoli. La questione è culturale e ci richiama a una responsabilità enorme.

Se la questione è culturale, tocca partire dalle scuole.

Certo, a cominciare dai libri di testo della primaria e della secondaria di primo grado, che vanno cambiati. In alcuni Paesi europei si misurano le competenze dei ragazzi e tra questi test c’è anche quello su “quanto sai badare a te stesso”: significa se sai farti il letto, cucinare, programmare una lavatrice. In assenza di ciò, si reiterano stereotipi che rappresentano una realtà degli anni Cinquanta, dai quali forse l’Italia non è mai uscita.

Crede che siano necessari interventi immediati sulla legislazione antiviolenza?

Le leggi sono buone, ma vanno applicate. Mi lasci dire: piuttosto c’è un grande lavoro da fare sulla rete istituzionale, che deve imparare a disvelare tutte le finte verità che ci siamo raccontati negli anni. A partire dalla non credibilità delle donne. La sottovalutazione della violenza è un problema anche nei tribunali. E invece i procuratori più esperti con cui lavoriamo ci dicono che le denunce ritirate non hanno nulla a che vedere con quelle strumentali: se una donna ritira una querela, è perché non è più nelle condizioni di sostenere un processo, è tornata sotto schiaffo, è minacciata, ha paura. Cominciamo a credere alle donne che denunciano.

Mi pare di capire che il lavoro da fare sia enorme.

Molto è stato fatto nell’ultimo periodo: oggi le donne arrivano nei centri in media dopo tre anni e mezzo di maltrattamenti, dieci anni fa erano sette. Però servono una campagna a tamburo battente e strumenti operativi. Le donne che accogliamo nei centri sono solo l’8 per cento di quelle che subiscono violenza (e solo a Roma ne ospitiamo 1.800, faccia un po’ i conti). Finché la violenza maschile verrà trattata come un capitoletto, la società continuerà a non vederla. Significa che si ha la responsabilità di non averla fatta emergere.

Gli strumenti operativi quali possono essere?

Adesso è difficile persino monitorare i femminicidi, perché non esiste una banca dati nazionale aggiornata in tempo reale. Non ci sono database che raccolgano e quindi permettano di analizzare le sentenze. Per fortuna la commissione parlamentare sulla violenza di genere, presieduta dalla senatrice Valeria Valente, sta lavorando molto in tal senso.

E noi giornalisti, che possiamo fare?

Cambiare il modo di raccontare la violenza. Negli articoli di stampa l’uomo maltrattante viene spesso coperto da un velo di invisibilità, quasi a voler mitigare i suoi gesti. Invece la donna vittima viene messa sotto osservazione: si descrivono la sua vita, le sue abitudini, le sue volontà. In questo modo nella percezione sociale l’uomo scompare. Il femminicidio è l’unico reato in cui i riflettori illuminano la vittima, e non il colpevole.

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