L'ultimo romanzo di una delle voci più significative della narrativa di lingua tedesca

Dörte Hansen, voce di una Germania che predice l’Apocalisse

Di Giuseppe Cesaro
24 Giugno 2020
Ha ragione Marret Feddersen a vedere la fine del mondo dappertutto. La fine del mondo è dappertutto. Nel rintocco, imprevedibile e impercettibile, dell’istante nel quale le cose scompaiono. Un attimo prima erano qui accanto a noi; un attimo dopo non ci sono più. Sembra un gioco di prestigio e, invece, è la realtà. Fa bene Marret la “svitata” ad andare di casa in casa, con lo scampanio irriverente dei suoi zoccoli, per scuotere Brinkebüll – immaginario borgo della Frisia – dal suo livido torpore nordico. “Il tempo sta per scadere!”, grida l’opuscolo che porta sempre con sé: “Svegliatevi!”. Il villaggio, però, è sordo di una routine secolare. E poi la verità si è travestita da follia. Forse perché sa benissimo che non le crederemmo comunque. Chissà? Magari così riuscirà almeno a strapparci un sorriso. Del resto, in quell’antica terra morenica, rimasta “sepolta sotto un ghiacciaio per un’eternità”, persino per Dio il lavoro del pastore è difficile. Il suo gregge sembra “refrattario a ogni credenza”, “imper­meabile a qualsiasi senso di devozione”. “Pazzi e pastori, che chiacchierassero pure”.
Non capita spesso, nella narrativa di oggi, di trovare una donna di questa forza. Surreale eppure violentemente reale; apparentemente assente eppure visceralmente presente; muta eppure drammaticamente e profeticamente loquace. Marret “sembrava vivere dietro una parete di vetro. Dovevi gridare o sbracciarti per raggiungerla, e a volte il vetro era pure appannato”; “era qualcosa di fugace, in balia dei venti, che cambiava forma di continuo, duna di sabbia, nuvola, mercurio, non aveva confini”. È lei la vera protagonista di Tornare a casa (da domani in libreria per Fazi, euro 18.50), l’intenso romanzo firmato Dörte Hansen – considerata una delle voci più significative della narrativa di lingua tedesca – eletto, non a torto, da Der Spiegel e librai “libro dell’anno”.
Marret svetta in una narrazione tutt’altro che avara di personaggi felicemente fuori pentagramma. Il maestro Steensen: uomo che appartiene al neolitico, e a guardare avanti non pensa proprio, che deve “essere venuto al mondo già maestro, con il suo abito scuro e quelle spalle larghe simili a due pagnotte bruciate”; Dora Koopmann che ce l’ha con tutta la gente ingrata e insolente che si serve al suo minimarket e, ogni tanto, tira i barattoli di conserva dietro a qualche rompiscatole; Heiko Ketelsen, che tutti chiamano “lo Sceriffo”, che vive in un Western tutto suo, e ha messo su un gruppo di “line dance” – i “Brinkebüll Buffalos” – che si esercita il giovedì alla locanda Feddersen. E, naturalmente, Ella Paulsen – la bella figlia del calzolaio, alta e bionda, che non parla mai, per la quale, da giovane, tutti i cavalieri di Brinkebüll erano disposti a fare a botte – e Sönke Feddersen, l’oste: l’unico che riusciva a far ridere la bella Ella e che l’ha sposata, in uniforme. Otto giorni di congedo dal fronte, prima di ripartire per mille giorni in un campo di prigionia, dal quale sarebbe tornato pelle e ossa. E, oggi, che Ella e Sönke stanno per festeggiare le nozze di ferro, nessuno sa quasi nulla dell’altro.
Sono loro i genitori di Marret-Fine-del-mondo, alla quale solo una cosa piace più del predire l’Apocalisse: le ballate pop. Canzoni che canta ogni volta che può e nelle quali tutti vogliono avere diciassette anni come lei. “A diciassette anni si sogna, poi arriva la fortuna, e allora tutto si aggiusta”. Oppure arriva “un bambino, e allora si diventa pazzi”. O forse si era pazzi già prima: “Nel caso di Marret l’ordine non era chiaro”. “C’ho una cosa che non va più via”, dice alla madre, fissandola con gli occhi sbarrati. E comincia a darsi botte sulla pancia. “Deve andarsene da lì! io non lo voglio più!”. Cerca di liberarsi di quella “cosa” in tutti i modi, finendo col fracassarsi costole e piedi. “Non saltare più, Marret”, le dice la madre: “Non te lo togli così”.
Per Marret, la fine del mondo arriva ad aprile: partorisce e, per venti ore, crede di morire. Quando Ella va all’ospedale a prenderla, deve ingoiare la filippica stizzita della Caposala Magda. La ragazza è stata “assistita, curata e istruita al pari di ogni altra puerpera”, con pazienza: “tanta pazienza!”. Il fatto, però, che non si degni di accudire il suo bambino, è inconcepibile. Ne avevano viste tante lì den­tro, ma “una madre che si comportava come se suo figlio non la riguar­dasse!” era il colmo. Il padre? Thomas, Wolfgang o Andreas: Marret non lo rivelerà mai. Era uno dei giovani ingegneri che, nell’estate del 1965, erano venuti per misurare campi, strade e corsi d’acqua e progettare la ricomposizione fondiaria di Brinkebüll. Alloggiavano alla locanda Feddersen e una sera avevano preso la giovane cantante sottobraccio, l’avevano fatta bere e baciata. Diciassette anni: mai fatta una cosa del genere. Figurarsi tre in un giorno solo. I tre avevano cambiato il futuro di Brinkebüll e anche quello di Marret. La fine non di uno ma di due mondi.
Ma chi è Ingwer, l’archeologo quarantesettenne che – dopo trent’anni – ha deciso di “Tornare a casa” e, mentre guida, ascolta Don’t Let It Bring You Down di Neil Young? E perché chiama Ella e Sönke “Mamma” e “Papà”?
“Il cielo sopra Brinkebüll era pieno di segni, ma all’infuori di Marret non li vedeva nessuno”. Grazie a Dörte Hansen per averli visti e interpretati per noi. Non li dimenticheremo.
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