Le promesse in malafede sui voucher

11 Maggio 2016

Il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ieri ha promesso una revisione del sistema dei voucher. Avete l’impressione di aver già letto questa notizia? Esatto: da sei mesi Poletti promette di correggere la più evidente delle distorsioni nel mercato del lavoro italiano.

Nei primi due mesi del 2016 sono stati venduti 19,6 milioni di voucher: hanno un valore nominale di 10 euro, 7,5 finiscono al lavoratore, il resto a Inps e Inail per previdenza e assicurazione infortuni. Non c’è neppure un contratto di lavoro, è il nuovo pagamento a cottimo che nel 2015 ha coinvolto 1,4 milioni di persone. Nel primo bimestre 2016 l’aumento rispetto al 2015 è stato del 45 per cento. Erano nati per pagare i lavoretti estivi come la vendemmia, siamo arrivati al punto che perfino la professoressa Chiara Saraceno, accademica di fama ed editorialista di Repubblica, ha detto di essere stata pagata in voucher per le sue conferenze. Dovevano combattere il sommerso, sono diventati una fantastica assicurazione contro i controlli: basta avere un voucher da esibire agli ispettori, poco importa se dietro quell’ora pagata regolarmente se ne nascondono altre sette in nero.

A cosa si deve questa esplosione? Allo scarso senso civico degli italiani, senza dubbio, che appena possono pagano in contanti, senza tasse e senza tutele (salvo poi lamentarsi dello Stato che non offre loro abbastanza). Ma il governo ha fatto la sua parte. Il decreto legislativo 81/2015 del giugno scorso ha allargato ancora le possibilità di ricorso al voucher. Il governo Renzi ha alzato a 7 mila euro netti l’anno il limite per lavoratore, che per l’Inps equivalgono a 9.333 lordi, quanto un dipendente a tempo parziale.

Poletti promette – di nuovo – una revisione della disciplina con l’obbligo di comunicare via sms all’Inps quando viene usato il voucher. Se l’esecutivo avesse voluto scoraggiare il ricorso ai voucher, non li avrebbe incentivati. Il governo Renzi, alla lunga, sarà ricordato molto più per aver avallato questa perversione piuttosto che per i ritocchi al Jobs Act.

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