Il lato oscuro del Made in Italy: l’export di armi va a gonfie vele

Raddoppiate le commesse: vendiamo ad Arabia, Kuwait e Qatar, condannati dall’Onu

28 Aprile 2017

In risposta agli strali di Papa Francesco contro “i trafficanti di armi che guadagnano con il sangue degli uomini e delle donne”, arriva in Parlamento la relazione governativa annuale che presenta con orgoglio il boom dell’export di armi italiane. Un business quasi raddoppiato nell’ultimo anno (14,6 miliardi di autorizzazioni rilasciate nel 2016 contro i 7,9 miliardi del 2015) e quasi sestuplicato negli ultimi due anni (era a 2,6 miliardi nel 2014). “L’Italia — si legge nel documento del ministero degli Esteri — è riuscita a uscire dalla crisi del settore” e, grazie alla “capacità di penetrazione e flessibilità dell’offerta nazionale”, risulta oggi a livello mondiale “terza per numero di Paesi di destinazione delle vendite dopo Usa e Francia” e “fra i primi 10 per valore delle esportazioni” salendo dal nona all’ottava posizione dietro Usa, Russia, Germania, Francia, Cina, Gran Bretagna e Israele.

“Il tono entusiastico di queste dichiarazioni – commenta Francesco Vignarca, coordinatore della Rete italiana per il disarmo – sarebbe comprensibile se venissero da Confindustria-difesa o dall’Istituto per il commercio estero, lo sono meno se provengono dall’autorità di controllo che dovrebbe essere neutrale e limitarsi a vigilare sul rispetto della legge 185/90 che vieta la vendita di armi a Paesi in guerra. Come possiamo però fidarci di un arbitro che continua a fare il tifo per la diffusione della produzione armiera italiana nel mondo?”, chiede provocatoriamente Vignarca, osservando che, dato tale orientamento, non stupisce che il governo continui ad autorizzare la vendita di armi a Paesi belligeranti.

L’incremento delle autorizzazioni rilasciate nel corso del 2016 è infatti legato all’aumento delle forniture di armamenti made in Italy impiegati nella guerra in Yemen dalla coalizione a guida saudita, condannata dall’Onu per i bombardamenti aerei indiscriminati che hanno causato la morte di migliaia di civili. Parliamo dei 28 cacciabombardieri Typhoon prodotti dall’Alenia di Torino venduti per 7,3 miliardi al Kuwait (le cui forze aeree hanno condotto almeno 3 mila raid sullo Yemen), delle 22mila bombe aeree della Rwm Italia di Domusnovas vendute per mezzo miliardo alla Royal Saudi Air Force (che, come documentato da Human Rights Watch, le impiega massicciamente in Yemen) e degli armamenti vari venduti al Qatar (impegnato nel conflitto yemenita con truppe di terra) che nel 2016 ha decuplicato le commesse italiane.

Le forniture verso il Medio Oriente crescono di anno in anno, facendo di questa regione la principale area geopolitica di esportazione per l’industria bellica italiana con vendite per oltre 8,6 miliardi, pari a quasi il 60 per cento del totale. “Questo dato – commenta Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere di Brescia – conferma una tendenza allarmante nella politica italiana di esportazione di sistemi militari degli ultimi anni, che contribuisce ad alimentare i conflitti che insanguinano la regione mediorientale e a ingrossare i flussi di profughi e rifugiati verso l’Europa”.

Come in tutti i grossi affari, anche nella vendita di armi le banche giocano un ruolo di primo piano, con una novità rilevante segnalata nella relazione annuale. Se gli anni passati il business dell’intermediazione finanziaria era dominato dalle banche straniere (sopra tutte la tedesca Deutsche Bank e la francese Crédit Agricole), nel 2016 è tornata in testa l’italiana Unicredit con oltre il 27 per cento delle transazioni (era al 12 per cento nel 2015) e sono in rimonta anche le popolari (in particolare la bresciana Valsabbina al 5 per cento e la Popolare di Sondrio al 2 per cento), tra le quali merita segnalare il raddoppio del volume di affari bellici di Banca Etruria, dai 17 milioni del 2015 ai 31 milioni del 2016.

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