Giovanni Lo Porto, l’Italiano ucciso dal drone Usa: il pm vuole archiviare (ancora)

Colpito in Pakistan nel 2015: il presidente Obama chiese scusa, poi più nulla. Le Indagini lacunose della procura di Roma

È un mistero internazionale. L’uccisione di un cooperante italiano, Giovanni Lo Porto, da parte di un drone americano, in Pakistan nel gennaio del 2015, portò l’allora presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, a chiedere scusa pubblicamente alla famiglia e all’Italia. Un gesto senza precedenti, considerato che, dal Pakistan allo Yemen, centinaia di famiglie di vittime […]

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È un mistero internazionale. L’uccisione di un cooperante italiano, Giovanni Lo Porto, da parte di un drone americano, in Pakistan nel gennaio del 2015, portò l’allora presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, a chiedere scusa pubblicamente alla famiglia e all’Italia. Un gesto senza precedenti, considerato che, dal Pakistan allo Yemen, centinaia di famiglie di vittime innocenti non hanno mai ricevuto una parola di pietà. L’uccisione di Lo Porto, colpito insieme con un altro cooperante americano, di nome Warren Weinstein, fu anche seguita dalla rimozione del capo del Counterterrorism Center (CTC) della Cia, che guidava il programma degli assassinii mirati con i droni e aveva guidato la caccia a Bin Laden: Michael DAndrea. Il suo nome fu rivelato dal New York Times due giorni dopo le pubbliche scuse di Obama. Era molto temuto, tanto da essere soprannominato The Undertaker, il becchino, e aveva ispirato la figura di The Wolf nel film Zero Dark Thirty.

Nel 2015 Obama non solo si scusò: promise la verità. Ma la verità non è mai arrivata. E ora il magistrato Erminio Amelio della procura di Roma potrebbe metterci sopra una pietra tombale. Sì, perché Amelio ha appena chiesto, l’archiviazione del caso. È la terza volta in cinque anni che il pm cerca di archiviare. Solo l’opposizione della famiglia Lo Porto e due sentenze del Gip, Anna Maria Gavoni, che ha ordinato al magistrato di continuare a indagare, l’hanno impedito. Finora. Ma stavolta il Gip che farà?

Giovanni Lo Porto fu rapito nel 2012 in Pakistan, dove lavorava per un’ong della Germania, insieme a un collega tedesco, poi liberato. Lo Porto, invece, fu ucciso nel gennaio 2015, con Warren Weinstein, in un attacco con un drone contro l’edificio in cui venivano tenuti in ostaggio dai terroristi.

L’inchiesta fu aperta nel 2012, inizialmente come sequestro di persona a scopo di terrorismo, e successivamente allargata fino a comprendere l’ipotesi di omicidio a carico di ignoti. Nel 2016, chi scrive rivelò un accordo tra la famiglia e il governo degli Stati Uniti per un condolence payment: una donazione di un milione e 185mila euro ai familiari, senza alcuna assunzione di responsabilità giuridica per la sua uccisione.

Era la prima volta che emergeva un documento ufficiale di quel tipo sulla guerra dei droni, avvolta nel segreto. Che ci risulti, non ne è più emerso un altro. La famiglia accettò il pagamento, ma non ha mai mollato la sua lotta per la verità. Rappresentata dagli avvocati Giorgio Perroni, Andrea Saccucci e Giulia Borgna, si è sempre opposta alle richieste di archiviazione e il Gip Gavoni, nel dare ragione ai familiari per ben due volte, ha evidenziato le lacune nelle indagini: solo dopo l’ordine del Gip, il pm Amelio ha presentato due rogatorie, negli Stati Uniti e in Pakistan, per acquisire informazioni. Ma nonostante la promessa solenne di Obama, gli Usa non hanno accettato alcuna richiesta di collaborazione.

I provvedimenti di Gavoni hanno fatto emergere pubblicamente le uniche informazioni fattuali sui tentativi italiani di liberare Lo Porto, tra cui il ruolo di un tale Matteo: era il nome di copertura di Marco Mancini, l’ex agente segreto del Sismi (oggi Aise) condannato per l’extraordinary rendition di Abu Omar e salvato dal segreto di Stato. A che titolo si occupava del caso?

Nonostante la seconda ordinanza del Gip del 2019, che imponeva al pm di acquisire, tra le altre cose, tutte le informazioni in possesso delle autorità italiane, e nonostante i quattro anni a disposizione, a oggi, Amelio non ha ritenuto di interrogare Mancini e l’allora direttore dell’Aise, Nicola Boeri, l’ex funzionario Aise Luca Meacci, gli ambasciatori Ettore Sequi ed Elisabetta Belloni, né ha provato a sentire l’allora direttore della Cia, John Brennan, e l’ex tenente colonnello Jason Amerine.

È per questo che la famiglia di Giovanni Lo Porto si oppone alla terza richiesta di archiviazione.

Il Fatto ha interpellato l’ambasciata d’Italia a Islamabad, che ci ha confermato: “A suo tempo la Sede ha trasmesso tempestivamente alle Autorità pakistane la rogatoria”. Il ministero della Giustizia ci ha dichiarato: “Allo stato, non è pervenuta alcuna risposta da parte del Pakistan”, ma l’ultima verifica appare fatta dal ministero il 21 gennaio 2022. Il nostro giornale ha anche contattato il Dipartimento di Stato Usa. Alla nostra domanda per sapere se le autorità americane abbiano mai indagato sull’uccisione di Lo Porto, il Dipartimento non ha risposto: ci ha semplicemente rinviato alle pubbliche scuse di Obama.