Saffo, colei che ha visto prima degli altri. Per questo canta l’amore meglio degli altri

Beatrice Masini (scrittrice, giornalista, editor, traduttrice) ha dato alle stampe un volume prezioso (non solo per ragazzi), “Io solo la mela. Una storia di Saffo” (rueBallu edizioni, illustrazioni di Pia Valentinis) in cui rievoca la vita della poetessa greca, capace di raccontare come nessuno i sentimenti degli esseri umani, e delle donne in particolare. Abbiamo chiesto all'autrice di spiegarci perché il mito di Saffo è immortale

Parlare dell’attualità di Saffo non ha senso, perché è come sottintendere che sia esistito un periodo in cui non è stata attuale. Ma la poetessa di cui non sappiamo quasi nulla già nel mondo antico veniva citata, ricopiata, parafrasata come facciamo noi con gli slogan felici o i titoli delle canzoni e dei film che abbiamo visto tutti: anzi, molto di ciò che ci è giunto di lei e su di lei corre proprio attraverso queste citazioni, forse imprecise o goffe per eccesso di manipolazione ma per noi così preziose. Saffo non è mai passata di moda, non è mai stata dimenticata, grazie al cielo.

Come tutte le storie incerte e incomplete, la sua è troppo attraente per non accendere il desiderio di riempirne le lacune con l’immaginazione. È legittimo? Certo non è proibito, men che meno oggi, quando impossessarsi delle storie vere, le storie degli altri (ancora meglio, alla greca, esserne posseduti) e raccontarle facendole proprie è un filone letterario a sé, ricco e spesso fortunato. Unire i pochi punti fermi della vita di Saffo – luogo di nascita e di vita, una manciata di nomi di luoghi e parenti, esilio dall’altra parte del mare, ritorno in patria, figlia, scuola per ragazze, morte leggendaria e improbabile – per ricavarne un qualche disegno è un esercizio appassionante, perché siamo tutti curiosi di cuori umani. Ma alla fine quello che conta sono le sue parole, le poche rimaste.

In un mondo vuoto, dove le persone non possedevano quasi niente perché non c’era quasi niente da possedere – un mondo così più leggero, più nudo ed essenziale del nostro, alla fine più libero – c’erano tanto spazio e tanto tempo per le idee. Anche le idee fino a poco prima non c’erano: bravo chi arrivava primo, capace di dar loro forma e forza, e poi di farle viaggiare lungo le rotte terrestri e marine della terra piatta come una mappa, tanto più piccola del nostro globo e insieme tanto più grande. Saffo è attratta dall’idea dell’amore, e la fa sua, le dedica la vita. Anche Omero, un solo nome per tanti uomini diversi, ha raccontato l’amore, con la grazia statica, da bassorilievo, delle sue formule: certo, la guerra di Troia è accesa da una passione e da un tradimento, ma nell’essenza è uno scontro insensato e accanito, un gioco feroce degli dei e degli uomini. Poi arriva lei, questa donna piccola e scura nata in un’isola piccola e lontana da tutto che per qualche accidente ha studiato e ascoltato, e il resto lo fa col suo talento, che non si apprende né si eredita, c’è e basta: prima di tutto ama, e sente. Ama la sua bambina, ama le allieve che guida e istruisce nelle arti delle Muse prima di vederle andar via con lo strazio nell’anima, ama la vita, ama l’amore anche quando è pena, forse ancora di più quando lo è. E trova le parole per dirlo. Sa quali scegliere, e lo fa. Lo fa per sé, prima di tutto. E viene amata perché lo sa fare.

È la differenza fra i comuni mortali e i poeti o gli scrittori quando sono molto bravi, questo scarto, questo abisso da colmare, questo senso di riconoscimento da umano a umano: tu hai le parole per dire le mie cose, le cose che provo io. Te lo riconosco, e per questo ti ammiro, e ti cerco e ti leggo e ti rileggo. Qualche volta il nostro bisogno di essere riconosciuti è così grande che ci accontentiamo di specchiarci dentro banalità che ci azzardiamo a chiamare poesia. Qualche volta vogliamo di più, voliamo più alto. La rima fiore amore, che evoca canzonette e distici quadrettati da scuole elementari, è la più antica difficile del mondo, come ha scritto Umberto Saba. Saffo non faceva rime ma ha inventato un metro che porta il suo nome e che è come un pulsare basso, un canto di battiti, sangue che rallenta o accelera nelle vene, e il cuore rischia di fermarsi proprio lì, quando è pari agli dei lui che ti guarda e ti vuole e io sono gelosa e glieli caverei, quegli occhi luccicanti di desiderio, un desiderio sbagliato perché non è il mio, sbagliato perché tu non sei mia. Basterebbe questo per celebrare Saffo in tutto lo spaziotempo. Questo, e il frammento della mela appesa troppo in alto per venire vista e colta. Chi non si è mai sentito quella mela? Per presunzione – io, io, la mela più bella – e con desolazione – io, io la mela che nessuno cerca, io la solitudine e la pienezza, io che vorrei essere spiccata, baciata, morsa, e invece. Lo spreco dell’amore non guardato. In Saffo tutto è questione di sguardi: oida, il verbo greco per dire io so, è un aoristo, un tempo passato, e vuol dire io ho visto. Ho visto, dunque so. Che siano gli altri a occuparsi di guerra, commerci, navi, vino, olio: Saffo, che era una donna, e non faceva la guerra, non commerciava, non viaggiava, non comprava, non vendeva, ha guardato, e ha visto prima degli altri. Lei sapeva, e sapendo – e soffrendo – ha scritto, prima degli altri. È arrivata prima.

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Parlare dell’attualità di Saffo non ha senso, perché è come sottintendere che sia esistito un periodo in cui non è stata attuale. Ma la poetessa di cui non sappiamo quasi nulla già nel mondo antico veniva citata, ricopiata, parafrasata come facciamo noi con gli slogan felici o i titoli delle canzoni e dei film che abbiamo visto tutti: anzi, molto di ciò che ci è giunto di lei e su di lei corre proprio attraverso queste citazioni, forse imprecise o goffe per eccesso di manipolazione ma per noi così preziose. Saffo non è mai passata di moda, non è mai stata dimenticata, grazie al cielo.

Come tutte le storie incerte e incomplete, la sua è troppo attraente per non accendere il desiderio di riempirne le lacune con l’immaginazione. È legittimo? Certo non è proibito, men che meno oggi, quando impossessarsi delle storie vere, le storie degli altri (ancora meglio, alla greca, esserne posseduti) e raccontarle facendole proprie è un filone letterario a sé, ricco e spesso fortunato. Unire i pochi punti fermi della vita di Saffo – luogo di nascita e di vita, una manciata di nomi di luoghi e parenti, esilio dall’altra parte del mare, ritorno in patria, figlia, scuola per ragazze, morte leggendaria e improbabile – per ricavarne un qualche disegno è un esercizio appassionante, perché siamo tutti curiosi di cuori umani. Ma alla fine quello che conta sono le sue parole, le poche rimaste.

In un mondo vuoto, dove le persone non possedevano quasi niente perché non c’era quasi niente da possedere – un mondo così più leggero, più nudo ed essenziale del nostro, alla fine più libero – c’erano tanto spazio e tanto tempo per le idee. Anche le idee fino a poco prima non c’erano: bravo chi arrivava primo, capace di dar loro forma e forza, e poi di farle viaggiare lungo le rotte terrestri e marine della terra piatta come una mappa, tanto più piccola del nostro globo e insieme tanto più grande. Saffo è attratta dall’idea dell’amore, e la fa sua, le dedica la vita. Anche Omero, un solo nome per tanti uomini diversi, ha raccontato l’amore, con la grazia statica, da bassorilievo, delle sue formule: certo, la guerra di Troia è accesa da una passione e da un tradimento, ma nell’essenza è uno scontro insensato e accanito, un gioco feroce degli dei e degli uomini. Poi arriva lei, questa donna piccola e scura nata in un’isola piccola e lontana da tutto che per qualche accidente ha studiato e ascoltato, e il resto lo fa col suo talento, che non si apprende né si eredita, c’è e basta: prima di tutto ama, e sente. Ama la sua bambina, ama le allieve che guida e istruisce nelle arti delle Muse prima di vederle andar via con lo strazio nell’anima, ama la vita, ama l’amore anche quando è pena, forse ancora di più quando lo è. E trova le parole per dirlo. Sa quali scegliere, e lo fa. Lo fa per sé, prima di tutto. E viene amata perché lo sa fare.

È la differenza fra i comuni mortali e i poeti o gli scrittori quando sono molto bravi, questo scarto, questo abisso da colmare, questo senso di riconoscimento da umano a umano: tu hai le parole per dire le mie cose, le cose che provo io. Te lo riconosco, e per questo ti ammiro, e ti cerco e ti leggo e ti rileggo. Qualche volta il nostro bisogno di essere riconosciuti è così grande che ci accontentiamo di specchiarci dentro banalità che ci azzardiamo a chiamare poesia. Qualche volta vogliamo di più, voliamo più alto. La rima fiore amore, che evoca canzonette e distici quadrettati da scuole elementari, è la più antica difficile del mondo, come ha scritto Umberto Saba. Saffo non faceva rime ma ha inventato un metro che porta il suo nome e che è come un pulsare basso, un canto di battiti, sangue che rallenta o accelera nelle vene, e il cuore rischia di fermarsi proprio lì, quando è pari agli dei lui che ti guarda e ti vuole e io sono gelosa e glieli caverei, quegli occhi luccicanti di desiderio, un desiderio sbagliato perché non è il mio, sbagliato perché tu non sei mia. Basterebbe questo per celebrare Saffo in tutto lo spaziotempo. Questo, e il frammento della mela appesa troppo in alto per venire vista e colta. Chi non si è mai sentito quella mela? Per presunzione – io, io, la mela più bella – e con desolazione – io, io la mela che nessuno cerca, io la solitudine e la pienezza, io che vorrei essere spiccata, baciata, morsa, e invece. Lo spreco dell’amore non guardato. In Saffo tutto è questione di sguardi: oida, il verbo greco per dire io so, è un aoristo, un tempo passato, e vuol dire io ho visto. Ho visto, dunque so. Che siano gli altri a occuparsi di guerra, commerci, navi, vino, olio: Saffo, che era una donna, e non faceva la guerra, non commerciava, non viaggiava, non comprava, non vendeva, ha guardato, e ha visto prima degli altri. Lei sapeva, e sapendo – e soffrendo – ha scritto, prima degli altri. È arrivata prima.