CATTEDRALI E NEW TOWN

Clic. Gli studenti si fanno selfie nella grande piazza rettangolare che sembra il ponte di una nave in mezzo all’onda dei crinali. Alle spalle hanno il duomo, o meglio la facciata. Perché dopo dieci anni i cantieri dell’edificio simbolo sono ancora lì, e diventano essi stessi un simbolo. Come le new town. Chi c’era all’Aquila nell’aprile 2009 se lo ricorda. Silvio Berlusconi accolto dalle ovazioni della gente che prometteva la ricostruzione entro la fine della legislatura. Guido Bertolaso che pareva Padre Pio, seguito da codazzi di cronisti osannanti. Ora il primo è un leader in declino, il secondo è diventato il simbolo di una stagione di soldi e appalti da dimenticare. All’Aquila, però, in molti hanno un’idea più articolata: “Ricordiamoci cos’era la nostra città allora: un cumulo di macerie. C’erano 65mila sfollati. E le new town furono un primo rimedio. Certo, poi è mancata una pianificazione, sono diventate dei dormitori, delle isole in mezzo al nulla”, racconta Enrico Stagnini, che guida l’attivissimo circolo di Legambiente. Una voce critica, ma lucida: “Il problema è stato il dopo. Una volta salvata la gente, bisognava salvare la città”. Già, è mancato qualcosa tra l’emergenza e la (troppo lenta) ricostruzione. Bisogna ricordarli quegli anni: la complessità della burocrazia, i cantieri che non partivano. La popolazione che voleva con tutte le sue forze restare (anche se si sono persi quasi 10mila abitanti), però non trovava più la sua città: il tribunale, per dire, che oggi è un palazzo scintillante, per anni era finito nei container in mezzo ai prati e ai papaveri. Con le cavallette, non è un modo di dire, che saltavano nelle aule d’udienza. E la gente costretta a pellegrinaggi a destra e a manca per andare a fare due documenti o gli esami del sangue; i ragazzi che correvano da un capo all’altro della periferia per andare a scuola e il sabato si ritrovavano nei piazzali dei centri commerciali. Sempre lo stesso errore: pensare che le città siano solo pietra.

Troppo facile, oggi, dire ‘maledette new town’. Puntare il dito sul miliardo speso per realizzarle. E chissà che non sia proprio per questo che si stanno lasciando cadere a pezzi, una sorta di rimozione. Basta andare a Cese di Preturo: decine di case abbandonate come le quinte di un film western. Cadono i balconi di legno marcio. Una vergogna, sì, ma se butti il naso nei cortili e nei corridoi, dove ormai vivono soltanto piccioni e gatti, trovi abitazioni ancora in perfetto stato. Mobili e infissi con rifiniture anche di pregio, tutto cacciato al vento, lasciato ai vandali che devastano, ma per il troppo ben di dio non sanno nemmeno più cosa rubare.

A Sassa e a Coppito la gente ci vive ancora, ma lo vedi soltanto dai panni stesi, da una vecchia che cammina raso ai muri con la badante, da un tizio che porta a pisciare il cane. Niente altro. Eppure nelle new town ci vivono ancora 10mila persone (erano 18mila nei primi anni). Provvisori a vita, con quelle stanze dignitose, ma tutte uguali; quegli indirizzi improvvisati, introvabili, perché non immagini che qualcuno qui ti bussi alla porta. Nemmeno un bar dove ritrovarsi per sentirsi ancora una città.

(immagini di Marianna Gianforti)

Ma per quanto ancora? E soprattutto: che cosa ne sarà delle new town realizzate per durare venti, trent’anni? Nessuno lo sa. Nemmeno il sindaco. Dopo Massimo Cialente (centrosinistra), che affrontato il terremoto è tornato a fare il medico, è toccato a Pierluigi Biondi, fan di Matteo Salvini (quando il leader leghista venne all’Aquila per la campagna elettorale il primo cittadino si prese a spintoni con alcuni suoi concittadini che lo contestavano: “È la mia indole”, si giustificò in seguito) che viene da CasaPound. Il problema Biondi lo conosce bene perché lui pure vive in una costruzione prefabbricata. Eppure, ammette, “sono provvisorie, ma hanno una loro stabilità. Resteranno e saranno riutilizzate. Quando gli sfollati saranno tutti rientrati nelle loro case, allora potranno ospitare altre persone in emergenza abitativa”. Il guaio, spiega il sindaco, “è che non c’è stato un approccio urbanistico. Si è affrontata l’emergenza, ma si è persa l’occasione gigantesca della ricostruzione”. Perché i soldi c’erano, anche se magari sono arrivati tardi ed era difficile avviare i progetti: “I 18 miliardi destinati finora all’Aquila sono già tutti disponibili”.

Già, nessuno davvero sa cosa ne sarà delle new town, diventate simbolo della città almeno quanto il duomo. C’è chi spera di utilizzarle per dare casa a tutti e chi forse progetta di realizzare nuove operazioni immobiliari sulle piastre di cemento – centinaia di migliaia di tonnellate – su cui sono state costruite. Nel dubbio a Cese di Preturo si lascia che gli animali e la vegetazione si impossessino di tutto. Un po’ come all’aeroporto: “Al G8 del 2009 ci atterrò Berlusconi”, racconta Stagnini, “da allora è praticamente abbandonato, di aerei non se ne ricordano a memoria d’uomo”. C’è perfino un bimotore che pare dimenticato, coperto di polvere sulla pista dove cominciano a spuntare le erbacce.

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