“Qualcuno ce la farà”. La libertà passa per le scuole

 

Alan gira le ruote con le mani e arriva in classe. Infila le dita tra i raggi della sua sedia a rotelle fino al tendone bianco nel bosco del campo rifugiati di Ritsona, 70 chilometri a Nord di Atene. Suda goccioloni salati che scendono lungo la schiena e fanno venire gli aloni alla maglietta pulita. Quella che dovrà usare anche domani e il giorno dopo domani. “Ciao teacher”, lo saluta un volontario che lo incontra sul sentiero che porta a scuola.

Scuola è una fila di banchi sotto un gazebo di tela che quando il sole è alto sopra la testa diventano un forno. Quando piove nemmeno ci sono, perché lì intorno tutto diventa fango e melma. “Mi chiamo Alan, ho 30 anni e vengo dalla Siria”, dice mentre si sistema il cappello. “Sono l’insegnante di inglese per i bambini di Ritsona. I miei alunni hanno dai 6 ai 12 anni”. Nella sua vita di casa insegnava agli adolescenti dopo le lezioni, li aiutava a fare i compiti.

Quando è arrivato nel campo ha avuto paura per la prima volta. “Paura del vuoto, paura di chi ti guarda senza speranza. Paura di chi non sa cosa fare quando è disperso nel nulla. La scuola è la salvezza, l’ho capito subito. Io insegno inglese perché questi bimbi possano avere una chance: qualcuno di loro ce la farà. Non tutti, ma qualcuno sì”.

Alan è affetto da distrofia muscolare, così come sua sorella Gyan. Hanno raggiunto la Turchia in groppa a un cavallo mentre la mamma dietro li seguiva con le due sedie a rotelle. Una volta a Smirne, i trafficanti gli hanno impedito di portarle sul gommone. Come restare senza le gambe una seconda volta. “Ero tra quelli che avrebbero potuto non farcela”, taglia corto Alan. “E invece sono qui. Ora insegno ai bambini. Nel campo ce ne sono 600 e molti di loro non sono mai andati a scuola. C’è bisogno di persone con esperienza, c’è bisogno di convincerli che è importante sedersi sui banchi improvvisati in mezzo alla foresta”. Dice che a volte bisogna alzare la voce e che sotto gli alberi di Ritsona non fa nemmeno così impressione.

In ogni campo della Grecia c’è un Alan. Un teacher che prende libri usati e si inventa lezioni di inglese, tedesco, arabo o matematica. I tavoli quelli non ci sono sempre, i quaderni solo se sono arrivati i container con gli aiuti e se c’era abbastanza spazio. Quando sei inchiodato nel vuoto di un campo profughi, la scuola è l’unica ancora che ti tiene agganciata alla realtà. La maggior parte delle tende sono state montate a chilometri e chilometri da centri abitati. La notte si vedono le stelle così luminose e a molti sembra ancora di essere in mezzo al mare, sui gommoni che invece di portarti in salvo ti trascinano in una nuova prigione. I giorni tutti uguali sono una lotta per il cibo, per i vestiti, per essere protetti dentro comunità improvvisate. Così si inventano le classi e le scuole. Perché è solo lì che i sogni prendono forma e quei volontari che parlano lingue nuove sembrano dirti che è vero: c’è un altro mondo e forse loro ci sono quasi arrivati.

Cherso è un campo a tre ore da Salonicco nel Nord della Grecia. Se lo guardi da lontano sembra un’astronave atterrata nel mezzo del vuoto. Alberi, terra a perdita d’occhio, campi. Poi paf, le tende e due bandiere all’ingresso che dicono “c’è” vita. Tutto è da un’altra parte rispetto al qui: il confine, gli uffici, i volontari, gli ospedali. Se ti serve qualcosa devi aspettare: che arrivi un furgone, che qualcuno si ricordi che esisti. C’è una tenda più grande delle altre al centro del campo: è fatta di tela chiara e ha lo stemma dell’esercito. Quella è una scuola ed è speciale perché ha una sola materia: tedesco. I mille siriani di Cherso sognano la Germania, tutti. Quindi che senso ha studiare altro? “Una ragazza del nostro team parla tedesco”, spiega Juan, il volontario spagnolo, “per ora possiamo organizzare le classi in lingua. Il problema sarà quando dovrà tornare a casa e i bambini saranno costretti a ricominciare da zero”.

Gli anni scolastici nei campi profughi sono scanditi dalle vite dei volontari. Tre settimane, due mesi, sei. Quattro giorni. Il tempo è una fisarmonica: non ha senso contarlo, è infinito quando non c’è niente da fare se non aspettare, vola quando c’è da organizzare altre partenze che spesso sono solo fughe. Nel porto di Skaramangas, 45 minuti in autobus dal centro di Atene, sembra di essere su una piattaforma militare. I container che ospitano 3200 persone, di cui circa 1200 bambini, sono pacchi da caricare su navi che li riportino a casa. Il vento quando soffia, e soffia sempre, tira raffiche così forti che i più piccoli a volte sognano di prendere il volo e andarsene. Il resto del tempo è sole a picco che rimbalza sulle lamiere e sul cemento o pioggia di ghiaccio che costringe a rintanarsi dentro container che sembrano scatole. Intorno le gru e i magazzini del porto.

I bimbi di Skaramangas non ricordano il giorno in cui è arrivato Nikols. Basso, con la barba e la pelle da marinaio, sembrava uno straniero come loro. Ha chiesto due container e ha promesso che i bimbi ce li avrebbe stipati tutti perché lì voleva una scuola: “Hope school, perché questa è la sola speranza che hanno. Se lo devono piantare bene in testa”. Nikols ha un istituto per insegnare il greco agli stranieri in centro ad Atene, e ce l’ha da una vita. Quando è iniziata l’emergenza profughi ha capito che starsene lassù non aveva più senso ed è sceso al porto, a Skaramangas. I suoi insegnanti sono Basel e Aimal che in Siria hanno studiato come ingegneri e Rania che invece faceva la geologa. Poi c’è Zamir che ha 17 anni e viene dall’Afghanistan: “E’ il più giovane, ci aiuta con il Farsi”. L’estate è servita per il censimento: sono andati container per container a incontrare i bimbi, a chiedere se erano mai stati a scuola, a sapere dalle famiglie quali sono le aspettative. “Ho visto mamme e papà commuoversi perché dopo tanto tempo erano trattati come genitori, come esseri umani”. La parte più difficile è stata convincerli che aveva senso. “Ci aprono la porta di quella che ora è la loro casa e sono fantasmi, corpi svuotati con un burrone nel petto”. Hanno parenti e amici sotto le bombe e hanno perso tutto. Chiedere loro di mandare i figli a scuola, vuol dire chiedere di ricominciare a vivere.

Sui banchi tornano i bimbi, ma anche gli adulti. Perché nella lotta per la sopravvivenza ce la fa solo chi riesce a mollare l’arabo e a indovinare due o tre parole di inglese. Uomini, mariti e ragazzi, ma anche donne, madri e figlie, si mettono in fila per frequentare le classi serali quando il turno in cucina è finito e quando anche i più piccoli cominciano a stropicciarsi gli occhi. Sono lezioni lunghe e la vera sfida è restare concentrati. Ahmed, che ha 28 anni e che in Siria era laureato in letteratura inglese, ha una classe di sole donne e ogni sera le aspetta nel retro del ristorante del campo di Eraklion, a pochi chilometri dal golfo di Katerini e appena sotto Salonicco. Qui Ahmed ha una stanza che comunica con il magazzino. Sul fondo accatastate sedie di un salone per cerimonie e festeggiamenti di un altro tempo. Sono lì abbandonate come fossero legna per un falò. Ana, Onriva, Mariam ascoltano in silenzio quel ragazzo che potrebbe essere loro figlio spiegare il past tense e il simple past di verbi che non hanno mai sentito nominare. E’ la parte più dura perché fa sentire impreparati: combattere per la vita lo hanno già fatto, riuscire a sentirsi all’altezza del mondo nuovo è un’altra questione. Ahmed cerca di vestirsi bene, di farsi vedere come un professionista. Fa la doccia ogni giorno prima della lezione e arriva come se fosse un ricevimento. Poi quando finisce torna al suo angolo del ristorante dove ha lasciato i libri: i classici della letteratura inglese che qualche volontario ha recuperato per lui tra gli scatoloni.

Ora è bloccato a pagina 20 del “Giro del mondo in 80 giorni”. Non lo convince la storia della mongolfiera per muoversi da un posto all’altro. A lui basterebbe sapere quanto è distante l’università di Oxford dalle pendici dell’Olimpo, lì dove si trova Eraklion. “Posso arrivarci se trovo un biglietto aereo?” La domanda ha smesso di farla, tanto non risponde mai nessuno.

“Qualcuno ce la farà”. La libertà passa per le scuole