I riscatti dai rapimenti

di Gianni Rosini



I riscatti dai rapimenti

di Gianni Rosini

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In ginocchio con in dosso una tuta arancione. A fianco il boia che parla, roteando il coltello con il quale lo ucciderà, e lancia il suo “messaggio all’America” e ai Paesi “nemici dei musulmani”. La decapitazione di James Foley è stata solo la prima utilizzata, il 19 agosto 2014, come mezzo di propaganda e monito per l’Occidente: La lama di Mohammed Emwazi, vero nome del terrorista meglio conosciuto come Jihadi John, è affondata nella gola di Steven Sotloff, Alan Henning, David Haines e molti altri prigionieri occidentali o arabi cristiani e musulmani. Ma dietro alla spettacolarizzazione della morte, al sadismo messo in video, grande spinta per la propaganda del neonato Califfato, c’è un business che solo nel 2014 ha fatto guadagnare a Isis tra i 20 e i 45 milioni di dollari: quello dei riscatti.

Il business dei riscatti ha fatto guadagnare a Isis tra i 20 e i 45 milioni di dollari nel 2014

Tra le vittime dello Stato Islamico non ci sono solo giornalisti, membri di Ong, medici, politici o militari occidentali. La maggior parte dei prigionieri provengono dai territori che, oggi, fanno parte del Califfato. Oppositori, membri di altre confessioni o etnie sono coloro che, spesso, finiscono per diventare le vittime della lama di Isis. Prigionieri in cambio della cui liberazione in molti casi viene chiesto un riscatto. Alcuni report parlano di richieste intorno ai 100 mila dollari per prigioniero non musulmano. Ma il prezzo varia in base alle possibilità economiche della controparte e, soprattutto, al valore simbolico del prigioniero. Per il cooperante americano Peter Kassig la famiglia ha ricevuto dai carcerieri una richiesta da 100 milioni di dollari. Gli stessi soldi chiesti per ognuno dei due prigionieri giapponesi, Kenji Goto Jogo e Haruna Yukawa, mentre per il giornalista statunitense James Foley il riscatto era stato fissato a 132 milioni.




Quello dei riscatti è un business che non coinvolge esclusivamente lo Stato Islamico, ma che da sempre è fonte di finanziamento per i gruppi armati ribelli. Lo sanno i venditori di uomini che bazzicano i confini del Califfato, soprattutto tra Siria e Turchia, che hanno catturato, carpendone la fiducia, molti giornalisti e cooperanti occidentali: un fixer, le guide per giornalisti, un contatto in loco o un tramite presente nei Paesi di origine possono essere coloro che, in cambio di qualche migliaio di dollari, decidono le sorti di chi vuol varcare i confini del Califfato o entrare in territori ad alta presenza di jihadisti. Anche per fermare questo business, molti governi si rifiutano di trattare i riscatti dei prigionieri con i terroristi e criticano quei Paesi che, invece, lo fanno. Sul banco degli accusati la Francia, la Spagna e l’Italia.

La maggior parte dei prigionieri provengono dai territori che, oggi, fanno parte del Califfato

I contatti con le famiglie dei prigionieri o i governi coinvolti possono avvenire direttamente, come nel caso di Kassig, o attraverso i social network, come successo ai prigionieri norvegese e cinese, Ole-Johan Grimsgaard-Oftsad e Fan Jinghui, le cui immagini sono state diffuse attraverso il mensile dello Stato Islamico, Dabiq, con la scritta “in vendita”. In quel caso, il canale scelto per i contatti tra miliziani e famiglie dei prigionieri fu Telegram, un’applicazione di messaggistica istantanea usata dai terroristi anche per le comunicazioni interne all’organizzazione. I pagamenti, poi, avvengono grazie all’intercessione di compagnie private consenzienti o in contanti, attraverso un passaggio di consegne. Per questo le transazioni sono difficilmente rintracciabili dalle istituzioni.