L’intervista

Chef Barbieri: “Se mi tolgono una stella finisco dallo psicologo. E il più grande è Vissani”

Bruno Barbieri - Con sette stelle “Michelin” è lo chef più premiato d’Italia. Da anni sta a MasterChef

30 Dicembre 2018

Entra in hotel, si avvicina al bancone, lascia il trolley, passano due secondi e una certa tensione – non panico, per carità – si manifesta tra receptionist, concierge, addetto alla sala e direttore. Seguono altri due secondi e per magia si materializza pure lo chef: “Questa sera cena da noi?”. “Temo di no, ma grazie”. Lo chef non insiste, ora è più tranquillo. Lui, Bruno Barbieri, è abituato: sette stelle Michelin nel curriculum (nessuno in Italia come lui), da anni è uno dei giudici di MasterChef (attualmente anche nella versione celebrity, dal 17 gennaio la nuova stagione) e nel 2019 sarà ancora alla guida di 4 Hotel, programma nel quale altrettanti albergatori si sfidano su chi è il migliore. Per questo non si scompone più di tanto, finge con garbo di non accorgersene, plana sulle pratiche alberghiere avvolto da un importante cappotto con pellicciotto al collo e si smarca dalle successive attenzioni con il classico “grazie, non ho bisogno di altro, vado in stanza”.

Crea sconquassi.
Sono una persona normalissima, poi la tua storia, la televisione, alterano la percezione: tra un po’ non avrò più né un ristorante né un hotel nel quale andare.

Il difetto più comune tra albergatori e ristoratori?

Vanno poco in giro per il mondo, stanno sempre e troppo dentro la loro comfort zone, non relativizzano delle presunte qualità; eppure cibo e accoglienza sono il nostro biglietto da visita.

Peccano di presunzione.
Si arriva all’ignoranza, al- l’approssimazione, al contrario è necessario aggiornarsi e anticipare le esigenze.

Sempre.
Se penso all’inizio della mia carriera, quando si presentavano i vegetariani o i vegani.

Cosa accadeva?
Non era normale come oggi, venivano derubricati al ruolo di “disturbatori della cucina”: quando arrivava la comanda scattavano le imprecazioni; oggi il pianeta è differente.

Ci sono pure i crudisti.
E i ciliaci, più una serie di allergie incredibili, dove un ristoratore può pensare alla presa in giro.

Un esempio.
Allergia alla radice, e sottolineo radice, del prezzemolo.

Il pasticciere Iginio Massari ha vinto la causa per una recensione offensiva pubblicata sui social.
C’è tanta gente che racconta delle gran palle: due anni e mezzo fa apro il mio locale a Bologna; decidiamo di prendere le ferie ad agosto. Mentre eravamo chiusi sono stati pubblicati una cinquantina di giudizi su vari siti, con gli insulti e le accuse più bizzarre.

Perfetto.
È parte del gioco, poi la quotidianità di questo lavoro è un’altra storia.

Che racconta?
La totale dedizione, si vive di sottrazioni, di rinunce; si vive al contrario delle persone comuni: quando gli altri mangiano tu lavori; quando gli altri si svegliano sei impegnato con la spesa; quando gli altri vanno a casa tu stai lì a sistemare la cucina.

Rinunce, dice.
Senza rendere il tutto un dramma, però è inevitabile sottrarre energie, spesso importanti, alla famiglia o agli amici: in questa professione è necessario investire quasi tutto il tuo tempo.

La sua prima fortuna.
Nascere in una famiglia dove il cibo ricopriva un ruolo importante; non solo: mia nonna era la perpetua di una chiesa di Piccolo Paradiso, vicino a Sasso Marconi, e allora il prete era una sorta di sindaco, e le altre donne le portavano le materie prime da distribuire. Non si buttava via nulla, c’era la scienza del riutilizzo.

Altro che spreco.
Il mio primo negozio l’ho conosciuto da adolescente.

Addirittura.
A noi bastava la campagna.

Per tutto.
Nonna ci interrogava a tavola su cosa mangiavamo, come mai il basilico non è sempre verde ma rosso, perché i fiori di zucca si raccolgono all’alba e mai nel pomeriggio.

Prosegua…
Come mai quando si prendono le uova bisogna lasciarne una; non solo: nonno era tartufaio e durante la stagione poteva sparire due settimane. A volte io con lui. E mamma andava a piazzare il bottino ai ristoratori bolognesi.

Il maiale?
Parte centrale della quotidianità: allevato, ucciso e lavorato in casa.

Ucciso con lei presente?
Forse non è chiaro: sono cresciuto in campagna, se per caso una mucca partoriva, nonna svegliava me e mia sorella, anche alle quattro del mattino; dovevamo assistere e capire: quella magia è parte della mia crescita.

Oltre alla cucina?
Viaggi e cibo sono il binomio vincente e per riuscirci ho vissuto la gavetta, sono finito in luoghi improbabili, o imbarcato per un paio di anni su una nave da crociera.

Un po’ Verdone nel suo Manuel Fantoni…
Per una stagione, a Milano Marittima, ho pulito tutti i giorni cinque casse di calamaretti.

Qualità necessarie per riuscire?
Grande determinazione, sognare sempre, e il desiderio di essere protagonista.

Il talento?
Non si impara. È un dono.

E poi?
Stare zitti e osservare, rubare con gli occhi, capire i meccanismi: per anni non mi sono quasi dedicato ad altro.

Ha indicato in Vissani uno dei suoi maestri.
Gli devo molto, più a lui che a Gualtiero Marchesi. Gianfranco, oltre trent’anni fa, ha iniziato a dare una svolta alla ristorazione italiana, e oggi è ancora qui a raccontare delle storie importanti: questo è lasciare un segno.

Primo pregio di Vissani?
In Europa e a livello gastronomico è il più grande conoscitore di materie.

Caratteraccio.
Per lavorare con lui bisogna avere il fisico: è capace di svegliarsi in piena notte, andare in bagno, prendere il telefono e chiamarti: “Andiamo in Croazia”. Perché? “Voglio comprare quattro casse di scampi”. Ma sono le 4 del mattino. “Andiamo!”

Altro che fisico.
Un genio a livello gastronomico che può mettere insieme elementi in apparenza lontani, come stinco di vitello, caffè e succo d’arancia, e creare un meraviglioso ripieno per ravioli.

Vissani attacca i talent per la semplicità.
Ha delle ragioni e paradossalmente è anche facile aprire un ristorante, scrivere un libro o arrivare su un giornale, ma per capire chi sei realmente, basta darsi appuntamento tra vent’anni. Lì voglio vedere chi c’è ancora.

Altrimenti si è bluff.
Da poco sono andato da alcuni tre stelle spagnoli: se mi domanda cosa ho mangiato, neanche lo ricordo, mentre della cena da Robuchon a Parigi, anno 1987, posso recitare il menù scelto da me e quello di chi stava a tavola. Chiaro?

Abbastanza.
Il problema di noi cuochi è che creiamo un grande piatto, lo prepariamo, serviamo, si mangia, e finisce tutto; le elaborazioni non sono né film né dischi in grado di restare nella memoria collettiva.

Manca l’eterno.
Per Andy Warhol il cibo era un elemento che entrava da un buco e usciva da un altro, eppure la sua fortuna è nata con una scatoletta di pelati.

Cuoco o chef?
È uguale.

Come mai hanno scelto lei a MasterChef?
Forse sono più bravo di qualcun altro.

La sua prima stella.
Quando eravamo un po’ folli e un po’ visionari (anni Ottanta): in quel periodo si esaltava la lepre alla royale, realizzata con una cottura di 48 ore, con dentro foie gras, tartufo e altre meraviglie; noi servivamo la lepre al sangue, cotta in sette minuti.

Bella differenza.
Oppure portavamo a tavola la tartare di cervo.

Negli ultimi anni vanno di moda gli spagnoli.
Hanno avuto e hanno grandi chef, tra questi Ferran Adrià (guru della cucina molecolare), ma la Spagna nella sua storia parte dal caffellatte con l’aglio dentro, ben lontana dalla nostra tradizione.

Quindi?
Per salire in fretta i gradini della considerazione mondiale gli serviva una cucina rivoluzionaria e sono stati bravi.

MasterChef.
Ha reso questo mestiere importante; quando ero ragazzo, se ai miei avessi detto “vado a frequentare la scuola alberghiera”, mi avrebbero cacciato di casa, al grido “è un lavoro da femmina”.

Mentre cosa accettavano?
L’ingegnere era il top.

Lei non ci pensava.
Mi sarei impiccato in ufficio.

Soluzione?
Sono fuggito da casa.

Cosa votavano i suoi?
Sempre a sinistra, o almeno credo, non parlavamo molto di politica.

Salsicce alla Festa dell’Unità?
Certo! Ma ho mangiato anche alle feste di destra e giocavo a pallone dai preti.

Al pallone non si resiste.
Una passione, ero una mezz’ala sinistra con il numero dieci sulle spalle: da ragazzo sognavo i colpi alla Rivera, mentre da grande guardavo solo Baggio.

A lei MasterChef cosa ha insegnato?
A vivere fuori dalle cucine e l’ho scoperto a cinquant’anni suonati: oggi mi diverto anche con il mondo della moda, con l’acqua minerale, con gli hotel…

Come nasce un piatto?
Un esempio? Se al centro della creazione c’è un’anatra, allora penso a dove vive, qual è il contesto, l’area geografica, il tipo di frutta, se c’è un lago o il mare; da lì metto insieme le idee.

Quindi la influenza il contesto…
Anni fa ho aperto un ristorante a Londra, e dopo poco tempo tutti i miei piatti avevano una realizzazione in bianco e nero, mi mancavano dei profumi, la luce giusta, i sapori, e nonostante le materie prime mi arrivassero dall’Italia. Dopo due anni ho venduto.

Cosa non mangerebbe mai?
Ci penso…

Il cane?
No, assolutamente.

La scimmia.
Mi farebbe impressione. Però ho assaggiato l’alligatore, il serpente, le formiche, le termiti in Venezuela…

Le termiti di cosa sanno?
Di erba appena tagliata; ah anche le culones, formiche colombiane grosse come un unghia: sanno di miele.

E poi?
In un periodo della mia vita andavo spesso a Rio de Janeiro e mi piaceva tantissimo spararmi un aperitivo verso le sei, quindi scendevo in strada e mangiavo degli spiedini cucinati alla brace da venditori improvvisati. Buonissimi.

E…
Un giorno raggiungo degli amici locali, racconto di questi spiedini, loro sbiancano: “Sei matto? Quei ragazzi vengono dalle favelas, e lì hai mai visto dei gatti?”.

Per cucinare qual è il più bel periodo dell’anno?
L’autunno è il massimo: selvaggina, tartufi, funghi, castagne, le verdure in foglia; poi c’è la voglia di mangiare; per carità i cetrioli sono buoni, ma è un’anguria, anche chi se ne frega.

Tra una fetta di salame e una tartare di orata?

Il salame tutta la vita.

Però oramai il salame lo compra e basta.
Sbagliato: ancora acquisto un maiale l’anno e realizzo i miei prodotti (da bravo emiliano sui salumi non scherza e inizia una descrizione lunga e affascinante, perfetta per una intervista specifica solo sul- l’argomento).

La Michelin è così importante?
Prendere una stella è come vincere un Oscar: il problema serio è quando te ne tolgono una.

A lei, mai?
(Prima di rispondere porta le mani alle parti basse) No! Quando capita diventa tutto complicato, ti costringe quasi ad andare in analisi dallo psicologo.

A Carlo Cracco è successo.
Hanno sbagliato, non ha disimparato a cucinare.

Lei ha disimparato?
Sono uscito due ore fa dalla mia cucina di Bologna…

(Sosteneva Pellegrino Artusi a fine Ottocento: “Quando sentite parlare della cucina bolognese fate una riverenza, ché se la merita”).

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