Lotte messicane

La tragedia dei trattati di libero commercio – Il reportage di Alessandro Di Battista (4)

Con la scusa del mercato - I nuovi conquistadores sono i marchi americani cui i governanti aprono le porte del Messico, ma qualcuno ancora resiste

Di Alessandro Di Battista
23 Settembre 2018

All’ingresso della comunità autonoma zapatista di Oventic ci sono due cartelli. Su uno c’è scritto che è proibito rubare, transitare con veicoli illegali e piantare droga. Nell’altro che qui comanda il popolo ed il governo ubbidisce. A Oventic non ero mai stato, in Chiapas decine di volte, la prima nel 2005 quando venni a comprare libri per la biblioteca di Nuevo Horizonte, la comunità guatemalteca dove lavoravo. Per arrivare ad Oventic abbiamo preso un taxi collettivo alla periferia di San Cristobal del las Casas, la più bella città del Chiapas.

Entrare ad Oventic è stato semplice. Un paio di uomini in passamontagna ci hanno chiesto le ragioni della nostra visita, le nostre professioni e i passaporti. Meglio non parlare di reportage da scrivere, pare che anche da queste parti i giornalisti non godano di ottima fama. Non sono e non sarò mai giornalista, credo che l’ordine dovrebbe essere abolito, ma era troppo complicato spiegarglielo. Ho detto che facevo il volontario in una comunità in Guatemala e non ho mentito dato che è ciò che sto facendo adesso. La visita alla comunità zapatista è durata un paio d’ore, i due uomini non ci hanno mai perso di vista, ci hanno autorizzato a scattare foto ai murales della comunità, al piccolo edificio dove ha sede la Giunta del Buon Governo e alla scuola.

Sono passati ventiquattro anni dal giorno in cui l’Ezln – l’Esercito zapatista di liberazione nazionale – occupò alcune cittadine del Chiapas per protestare contro il trattato di libero commercio con gli Stati Uniti d’America. L’epoca in cui il Subcomandante Marcos affascinava partiti e movimenti di sinistra in tutto il mondo pare sia finita, lo stesso Marcos non esiste più, oggi si fa chiamare Subcomandante Galeano, in onore di un membro dell’Ezln assassinato qualche anno fa. Eppure le comunità zapatiste sono ancora qui, molti dei primi insorti sono vecchi, altri sono morti ma i loro figli e i loro nipoti continuano a studiare nelle scuole ribelli delle comunità. Studiano comunicazione politica, il materialismo marxista e la cosmovisione maya anche se alcuni conoscono meglio la biografia di Cristiano Ronaldo. La loro autonomia non è più minacciata dall’esercito nazionale o dai politici messicani. Al termine della visita ad Oventic siamo andati a mangiare nel piccolo ristorante comunitario. C’erano buoni piatti da scegliere: zuppa di fagioli, carne di manzo con cipolle e il pollo in mole, una squisita salsa a base di cacao e tortillas bruciate. C’era la Coca-Cola e ce l’hanno offerta.

Il rito propiziatorio con le bottiglie gassate

A un paio d’ore da Oventic si trova San Juan Chamula, una comunità maya tzotzil. I chamula, l’etnia indigena di questo territorio, venerano Giovanni Battista nel tempio di San Juan, una chiesa con una facciata imbiancata a calce e delle pittoresche arcate tinteggiate di verde e azzurro. Gli tzotzil detestano essere fotografati. C’è chi è stato prelevato con la forza per aver contravvenuto ai loro ordini, quindi niente foto. Non c’erano né banchi né sedie in chiesa. Chi prega è abituato a farlo per terra. Il pavimento era ricoperto di aghi di pino il cui profumo si mescolava con quello dell’incenso. I fedeli erano tutti indigeni, alcuni di loro sembravano assenti, sprofondati nella magia dei rituali. Con gli occhi chiusi pregavano e cantavano. Altri si passavano reciprocamente sul corpo dei piccoli rami con delle foglie. Tra una parola indigena e un’altra spuntava fuori un Jesus, una Maria, un amén, un Padre Nuestro. C’erano bottiglie di Coca-Cola dappertutto. Se le passavano come fosse il calumet della pace. Bevevano, ruttavano, poi strofinavano le bottiglie di Coca Cola sul corpo dei loro figli. Un tempo per i rituali si utilizzavano le bevande a base di mais. Il nuovo sincretismo non è più tra religioni, ma fra tradizioni e neoliberismo.

A Merida, la capitale dello Yucatan, i muratori vanno in cantiere con una bottiglia da tre litri e mezzo di Coca Cola a testa. Prima ancora che inizi il turno, alle 7 e mezza del mattino, se ne sono già scolati quasi la metà. Sono sottopagati, ma la Coca Cola se la possono permettere, spesso costa meno dell’acqua (e comunque quasi tutta l’acqua che si beve in Messico viene prodotta dalla Coca Cola Company).

I messicani sono oggi il popolo più obeso al mondo, hanno superato gli statunitensi. Chi ha denaro e istruzione mangia e lavora meglio. I supermercati che vendono prodotti biologici spuntano come funghi in California mentre i più disgraziati si nutrono di cibi ipercalorici, bevono alcol, sono dipendenti dallo zucchero e muoiono prima. I colonizzatori di oggi non devono aprirsi la strada con le armi, gli bastano i trattati di libero commercio o le novelas che mostrano modelli di vita irraggiungibili. Si chiama globalizzazione e i partiti di sinistra europei, se ancora così si possono chiamare, ne sono diventati i principali paladini. E continuano imperterriti su questa strada, parlano di Ttip o Ceta spacciando il libero mercato come la chiave per lo sviluppo globale e poi, per lavarsi le coscienze, improvvisano passerelle sulle navi dei migranti dimenticando che quella gente fugge dalle disuguaglianze che loro stessi hanno contribuito a creare.

La filosofia politica dei fagioli e del mais

Il neo-imperialismo, quello dei mercati, non produce ingiustizie soltanto nel terzo mondo. Negli Stati Uniti molti tra coloro che hanno votato Donald Trump l’hanno fatto anche per le sue dichiarazioni contro il Nafta – North American Free Trade Agreement – proprio il trattato di libero commercio tanto osteggiato dagli zapatisti del Chiapas. Lo stesso Trump l’ha definito un accordo scellerato che ha prodotto una ecatombe di posti di lavoro. Vedremo se sarà in grado di cancellarlo. Grazie al Nafta si sono arricchite multinazionali che fatturano più di un medio stato latinoamericano. In particolare le multinazionali dell’agro-business, i padroni dei semi, i padroni del cibo, i padroni del mondo.

Pensate che il libero mercato sia libero davvero? Andatelo a raccontare a quei contadini costretti a vendere le proprie terre perché dagli Usa, grazie al trattato Nafta, arrivano derrate di mais a basso costo che hanno reso insostenibile lavorare la terra. Da contadini umili ma pur sempre padroni di loro stessi si sono trasformati in quell’esercito di derelitti che ha prima popolato i bassifondi delle metropoli centroamericane vedendo i figli strappati dalle bande armate dei quartieri caldi, poi ha attraversato il Messico sperando che al di là del muro vi fosse un’opportunità per le loro famiglie.

Il bello è che tra gli obiettivi del Nafta c’era anche quello di contrastare l’immigrazione clandestina. Ma nei dieci anni che vanno dagli inizi del 1980 al 1990 il numero dei messicani presenti negli Stati Uniti d’America passò da 2 a quasi 4 milioni e mezzo. Dal 1994 – anno dell’entrata in vigore del Nafta – al 2000, raggiunsero quasi i 10 milioni. Il perché lo spiega Aldo Gonzalez, leader della Unsojo, l’Unione delle Organizzazioni Contadine della Sierra Juarez, la principale catena montuosa dello stato di Oaxaca. Aldo è di etnia zapoteca, come Benito Juarez, il primo presidente di origine indigena del Messico, anch’egli di Guelatao. Una milpa è un campo destinato alla coltivazione del mais. Aldo coltiva la sua milpa come si faceva ancor prima che arrivassero gli spagnoli. Ci pianta il mais, i fagioli e la zucca così da ottenere carboidrati, proteine e vitamine. Il mais permette alla pianta di fagioli di arrampicarsi, le radici della zucca si diffondono sotto terra riducendo la crescita di piante infestanti e il fagiolo è una leguminosa capace di arricchire di azoto il terreno. “Ci serve cooperazione, protezione. Guarda la milpa, insegna agli uomini come comportarsi”, spiega Aldo.

Il Messico è il paese dove è nato il mais e se ne contano 1200 varietà diverse, eppure oggi ne importa una grande quantità dagli Stati Uniti. Teoricamente in Messico non si può coltivare mais transgenico eppure di mais modificato geneticamente ne arriva parecchio sulle tavole messicane e questo ha contaminato alcuni campi del Paese. Dal 1994 in poi sono arrivate tonnellate su tonnellate di mais dagli Stati Uniti. Il mais costava pochissimo, i contadini non potevano resistere e hanno venduto le loro terre e lasciato il campo. Libero mercato? Negli Usa il mais è sovvenzionato, con miliardi di dollari. I contadini, spiega Aldo, spesso vendono le loro terre a latifondisti legati, direttamente o indirettamente, alle stesse multinazionali dell’agro-business.

La sovranità alimentare comincia dall’indipendenza

La pseudo-sinistra vede il fascismo ovunque: lo vede in quello che definisce populismo sudamericano, lo vede nei movimenti che cercano di fare tabula rasa dell’establishment europeo, lo vede in Putin o nelle case di chi ha una bottiglia di vino con Mussolini sull’etichetta. Tuttavia proprio non riesce a vederlo dove realmente dimora: nello strapotere del libero mercato. Aveva ragione Pier Paolo Pasolini quando disse che la civiltà dei consumi – il vero fascismo – stava distruggendo le varie realtà particolari dell’Italia, i vari modi di essere uomini.

In Messico i conquistatori di oggi sono gli ipermercati della Walmart ai quali i governi messicani hanno aperto le porte di casa come fece Moctezuma con Hernan Cortez. La battaglia politica del secolo non è più quella tra destra e sinistra ma tra chi ci vuole passivi consumatori di qualsiasi cosa, dal cibo alle notizie dei telegiornali, e chi prova a riprendersi fette di sovranità.

Da queste parti qualcuno ha capito che occorre partire dalla sovranità alimentare. L’ha capito Aldo Gonzalez e i promotori della Unosojo che girano le montagne di Oaxaca incontrando le popolazioni indigene e provando con loro a mettere in piedi progetti a difesa del mais nativo. L’hanno capito Maria Estela Barco e Faustino Guzman di Desmi, una delle organizzazioni sociali più antiche di San Cristobal de las Casas che sostiene le comunità indigene del Chiapas e collabora con quelle zapatiste. “Essere padroni dei nostri semi è il primo passo per la sovranità alimentare”, dice Maria Estela Barco. Ogni anno fuggono dal Messico verso gli Stati Uniti decine di migliaia di contadini. Secondo Maria Estela il solo modo per impedire questo esodo di massa è sostenere le comunità agricole diffondendo pratiche agro-ecologiche. “L’autonomia delle comunità indigene è in pericolo. I governi messicani ricevono ordini dai lobbisti della multinazionale Monsanto e stanno pensando a mettere fuori legge i semi nativi. Pretendono solo l’utilizzo di semi certificati, quelli prodotti dalle multinazionali. Ma un contadino che non produce i propri semi è un contadino morto”.

Mi rendo conto che sia complicato mettere in relazione la produzione dei semi con fenomeni enormi quali i flussi migratori. Ma non c’è contadino al mondo che potendo vivere dignitosamente lascerebbe la propria terra. La globalizzazione avanza eppure c’è chi vi si oppone e non lo fa con atti vandalici o con un post su Facebook. Lo fa piantando semi nativi, lo fa creando delle banche dei semi per mettere in sicurezza il futuro degli uomini. Lo fa parlando di sovranità, di autonomia, di libertà. Lo fa combattendo contro i trattati di libero commercio, come fanno da 24 anni gli zapatisti. Lo fa percorrendo le strade sterrate del Chiapas per raggiungere una comunità di montagna dove vivono uomini e donne che neppure parlano spagnolo e che pensano che la povertà sia la loro condizione naturale.

Il nostro futuro passa per una pannocchia

La povertà non è ineluttabile, come predicò per tutta la vita Don Samuel Ruiz Garcìa, il Vescovo degli indigeni fondatore di Desmi. Il lavoro di don Samuel a sostegno dei poveri del Chiapas è stato osteggiato da molti: i governi messicani lo accusarono di eversione e di aver preparato il terreno alla nascita degli zapatisti. I latifondisti dello Stato lo considerarono un pericolo per il loro interessi e la Curia romana preferì prendere le loro parti piuttosto che quelle delle popolazioni indigene del Messico. Don Samuel è sepolto nella cattedrale di San Cristobal de las Casas, chiusa da quando l’ultimo terremoto ha colpito il Chiapas. Papa Francesco, nel 2016, ha pregato sulla sua tomba e non è stato un gesto da poco.

Al primo piano del Palazzo del governo di Merida c’è un mural che raffigura la nascita dell’essere umano secondo il Popol Vuh, il libro sacro dei maya. L’uomo viene creato dal mais, sboccia da una pannocchia. Non so se questa indissolubile unione tra il principale prodotto della fertile terra messicana e l’uomo rappresenti davvero il passato, senz’altro rappresenta il futuro.

1 – Stati Uniti, i droni al posto dei rider
2 – Tijuana, il mondo perduto nascosto dal muro
3 – Il voto populista per non farsi ammazzare

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