Giovani, la generazione perduta ignorata dai politici

20 Luglio 2017

Matteo Renzi, autore di un libro tanto diffusamente anticipato su tutti i quotidiani che non è chiaro cosa sia rimasto da leggere al lettore che volesse acquistare l’opera, è oggetto anche di un dibattito su Repubblica, dove ci si domanda da giorni perché il segretario del Pd stia così sulle palle alla gente. C’è chi parla di odio prepolitico, chi dice che è come la Juve (ma in questo caso, dove sono gli scudetti?).

Altro argomento che appassiona parecchio sono i movimenti a sinistra della sinistra, dove è tutto un minuetto di avvicinamenti e separazioni. Intanto succedono anche delle cose, ma siamo talmente assuefatti al chiacchiericcio di fondo che nessun tonfo sembra in grado di attirare attenzione.

Per esempio, un paio di giorni fa sono stati resi noti i risultati dell’indagine sull’occupazione e sugli sviluppi sociali in Europa pubblicata dalla Commissione Ue. In Italia i ragazzi fra 15 e 24 anni che non lavorano e non studiano (i cosiddetti Neet) sfiorano il 20% (la media europea è 11,5%). Ma non è finita: la differenza fra lavoratori maschi e femmine è al 20,1% e il numero di persone che vivono in condizioni di povertà estrema (11,9%) è aumentato fra 2015 e 2016. E poi: nel 2016, la disoccupazione fra i 15 e i 24 anni è stata al 37,8%, in calo rispetto al 40,3% del 2015, ma comunque siamo terzi dopo Grecia e Spagna.

Chi – miracolo – riesce a trovare un lavoro, in più del 15% dei casi ha contratti atipici ed è “considerevolmente più a rischio precarietà”. Ciliegina: chi ha meno di 30 anni guadagna in media meno del 60% di un lavoratore ultrasessantenne. Il miracoloso Jobs act funziona solo sulle slide.

Siccome i giornali qualche volta riescono a guardare al di là del proprio naso (e di quello dei governanti) Niccolò Zancan della Stampa è andato a trovare Ernesto, un Neet 21enne, perché, come ha spiegato lui stesso, “le statistiche non sanno niente di me e di mio padre, della nostra famiglia”. Ecco quello che i numeri non dicono: “Mio padre è un operaio della Fiat, mia madre fa le pulizie quando trova un po’ di ore.

Divido la stanza con mio fratello Michele, che ha 39 anni. Ho un altro fratello disoccupato. Viviamo in cinque con due stipendi. Io cerco di aiutare: butto l’immondizia, cucino, vado a fare la spesa. Compriamo il pane tre volte a settimana”. Ernesto ha un diploma, ovviamente non si può permettere l’università e non è abbastanza dotato per una borsa di studio.

“Mi sono iscritto a sette centri per l’impiego. Fino a qualche mese fa, ogni giorno andavo al centro commerciale a vedere se mettevano degli annunci. Ho provato all’Ikea, a Leroy Merlin. L’ultimo tentativo è stato per un posto da commesso in un negozio di videogiochi. Non servo. Mi scartano sempre. Dopo un po’, ti chiudi. Ci rinunci. Vivi dentro la tua stanza, aspetti che passi il pomeriggio”.

Come abbiamo appena visto, ad aspettare che passi il pomeriggio è una considerevole parte di una generazione intera: la storia di Ernesto non è solo umanamente straziante, è il più potente atto di denuncia verso una politica completamente autoreferenziale, cieca e sorda ai bisogni del Paese. Quando qualcuno di lorsignori viene interrogato sul tema o sfodera i numeri dell’ultima velina o parla di “meritocrazia”.

Come se tutti quelli che non sono geni fossero da buttare, come se solo le élite facessero parte della società. E attenzione: sono gli stessi che blaterano di fascismo. Ma come vogliamo chiamare questa spietata selezione della razza, dove solo chi eccelle ha diritto di vivere dignitosamente, diritto a un’esistenza piena che non sia solo aspettare che passino i pomeriggi? Provare a occuparsi di questo dovrebbe essere un imperativo morale e potrebbe persino essere un’idea per essere meno odiati.

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