De Benedetti si sbaglia, ai politici di oggi non frega niente dei giornali

19 Gennaio 2018

Può essere declinata in diverse forme teatrali la strepitosa intervista dell’Ing. Carlo De Benedetti a Lilli Gruber, mercoledì sera a Otto e mezzo. Tragedia shakespeariana, a proposito del trattamento subìto dai figli irriconoscenti e dell’“assenza” di rapporti con gli odierni possessori dell’amatissima Repubblica (“Quanto è più crudele del morso di un serpente l’ingratitudine di un figlio”. Re Lear). Fosco melodramma, a proposito del “salvataggio dal fallimento” dell’adorato giornale, ricompensato con le insolenze dei comunicati aziendali e del cdr (“Questa donna pagata io l’ho”. Alfredo nella Traviata di Giuseppe Verdi).

Spassoso vaudeville, a proposito degli scazzi con l’altro grande vecchio Eugenio Scalfari, “un ingrato che deve solo stare zitto, non in grado di sostenere domande e risposte” (Walter Matthau furioso con George Burns, nell’interpretazione di una coppia un tempo celebre a Broadway: “Mi sputava addosso saliva approfittando di parole come spavento, spremuta, spigolatura senza contare le ditate con cui mi percuoteva il petto”. I ragazzi irresistibili di Herbert Ross). Questo diario, tuttavia, si occupa di campagna elettorale e dunque da quel fiammeggiante confronto ci limiteremo a cogliere gli aspetti più pertinenti con l’attualità politica. Per esempio, la critica verso chi oggi è al timone del quotidiano prediletto (“Repubblica sta cambiando la sua identità e non fa più politica: d’altronde se uno il coraggio non ce l’ha…”). Per esempio, la totale disistima nei confronti del candidato premier 5Stelle, Luigi Di Maio (“un disastro, l’incompetenza al potere, un poveraccio”). Due affermazioni che in qualche modo si completano.

De Benedetti evidentemente prova nostalgia per i bei tempi andati, di quando non solo Repubblica “faceva politica” ma si parlava apertamente di un “partito di Repubblica” che faceva e disfaceva governi. Eppure alla guida suprema di un giornale così temuto c’era quel medesimo Scalfari che ora egli così apertamente disistima, non cordialmente ricambiato. Le riunioni di redazione nelle quali il Fondatore metteva in viva voce le telefonate dei leader del tempo, da Ciriaco De Mita a Giovanni Spadolini, bramanti l’autorevole copertura di una corazzata che allora navigava in un mare di copie, sono diventate leggenda.

Erano gli anni 80 e 90, quando ancora la grande stampa aveva l’ambizione di informare e formare la pubblica opinione. Testate temute dalle varie articolazioni del potere, e consapevoli del danno che avrebbe loro procurato presso i lettori l’apparirne invece i caudatari. Oggi la crisi galoppante dell’editoria è insieme la causa e l’effetto della crisi di credibilità e di “identità”. Soprattutto quando si scrive di politica e di politici nella (ex) grande stampa in genere si preferiscono le tinte sfumate, sfocate ai titoli forti magari faziosi ma decisi. Un po’ come quel personaggio di un film di Woody Allen che il regista inquadra ma non riesce mai a mettere a fuoco nell’obiettivo. Dunque, caro Ingegnere, conseguenza della perdita di identità (e di copie) è che il Di Maio (incompetente o meno) può, mi perdoni, riccamente fregarsene di ciò che dicono di lui i giornali.

Poiché oggi il consenso elettorale segue altri invisibili percorsi, solo minimamente influenzati da un commento in prima pagina di un direttore (o di un editore). Non si spiegherebbe altrimenti la crescita tumultuosa del M5S che fino al boom del 2013 era oggetto di cronaca giornalistica quasi esclusivamente per i Vaffa di Beppe Grillo. Del resto, come si poteva dare credito a un comico? Oggi il “coraggio” semmai consisterebbe nello spiegare come mai un giovanotto digiuno di congiuntivi e forse anche di economia (ma dalla fedina penale pulita) raccolga il favore di alcuni milioni di cittadini italiani. Che non possono essere tutti degli ignoranti o degli sprovveduti o dei poveracci (anche se non leggono Repubblica).

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