Il populista è solo un politico di successo che non ci piace?

Di Jan-Werner Müller
6 Marzo 2017

Nessuna campagna elettorale negli Stati Uniti ha mai visto così tanti riferimenti al “populismo” come quella che si è svolta nel 2015-2016. Sia Donald Trump sia Bernie Sanders sono stati etichettati come “populisti”. Il termine è utilizzato abitualmente come sinonimo di “anti establishment”; i contenuti sembrano essere irrilevanti rispetto ai comportamenti. Il termine è associato innanzitutto a stati d’animo ed emozioni: i populisti sono “arrabbiati”; i loro elettori sono “frustrati” o nutrono “risentimento”. Marine Le Pen e Geert Wilders, per esempio, sono comunemente definiti populisti. Entrambi sono chiaramente di destra, però, come per il fenomeno Sanders, anche i ribelli di sinistra sono etichettati come populisti: c’è Syriza in Grecia e Podemos in Spagna. Entrambi ritengono fondamentale l’ispirazione alla “onda rosa” in America Latina: il successo di leader populisti come Rafael Correa, Evo Morales e Hugo Chávez. Ma che cosa hanno in comune tutti questi politici?

Ogni politico desidera piacere al “popolo”, tutti vogliono raccontare una storia che possa essere compresa da quanti più cittadini possibile, tutti vogliono essere sensibili al modo di pensare della “gente comune”. Un populista potrebbe essere semplicemente un politico di successo che non ci piace? O invece il populismo potrebbe essere “la voce autentica della democrazia”, come sosteneva Christopher Lasch?

Quale tipo di attore politico può essere qualificato come populista? È condizione necessaria ma non sufficiente essere critici nei confronti delle élite. Altrimenti, chiunque attacchi lo status quo sarebbe per definizione un populista. Oltre a essere antielitari, i populisti sono spesso antipluralisti. Sostengono di essere gli unici a rappresentare il popolo. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, in segno di spregio verso i numerosi connazionali che lo osteggiavano, ha dichiarato: “Noi siamo il popolo. Voi chi siete?”. La rivendicazione della rappresentanza esclusiva non è empirica; è sempre chiaramente morale. Quando sono in lizza per una carica, i populisti ritraggono i concorrenti politici come parte dell’élite immorale e corrotta, quando salgono al potere si rifiutano di riconoscere qualsiasi opposizione come legittima. La logica populista prevede inoltre che chiunque non sostenga i populisti non possa essere considerato a buon titolo come facente parte del popolo, sempre definito come virtuoso e moralmente puro. I populisti non affermano “Siamo il 99 per cento”, sottintendono “Siamo il 100 per cento”.

L’idea del popolo unico, omogeneo, autentico è una fantasia. Come ha sostenuto il filosofo Jürgen Habermas, “il popolo” può esistere solo nella sua pluralità. E si tratta di una pericolosa fantasia, perché i populisti non solo amano i conflitti e incoraggiano la polarizzazione, ma trattano i loro oppositori politici come “nemici del popolo”. Questo non vuol dire che tutti i populisti manderanno i loro nemici in un gulag o erigeranno mura lungo i confini nazionali, ma neppure che si limitino a un’innocua retorica da campagna elettorale.

I populisti governano da populisti. Un’amministrazione populista presenta tre caratteristiche: il tentativo di appropriarsi dell’apparato statale, la corruzione e il “clientelismo di massa” e gli sforzi sistematici per reprimere la società civile. Anche molti dittatori si comportano in modo analogo. La differenza è che i populisti giustificano la propria condotta sostenendo di essere gli unici a rappresentare il popolo.

Oltre un quarto di secolo fa, un funzionario praticamente sconosciuto del Dipartimento di Stato americano pubblicò un famigerato saggio largamente frainteso. L’autore era Francis Fukuyama e il titolo era La fine della storia. Da tempo, si tende ad affermare pigramente la propria raffinatezza intellettuale sostenendo con scherno che la storia non è terminata con la conclusione della Guerra Fredda. Ma Fukuyama non aveva previsto la fine di ogni conflitto. Aveva scommesso che non ci sarebbero stati più oppositori alla democrazia liberale a livello di idee. Si sbagliava veramente?

Il radicalismo islamico non rappresenta una seria minaccia ideologica per il liberalismo. Il “modello Cina» di capitalismo di Stato ispira qualcuno come un nuovo modello di meritocrazia e forse, su tutti, chi ritiene di avere i meriti maggiori (gli imprenditori della Silicon Valley) Eppure la “democrazia” resta il premio politico più ambito, e i governi autoritari sborsano enormi somme di denaro a esperti di relazioni pubbliche per essere riconosciuti dalle organizzazioni internazionali e dalle élite occidentali come democrazie. Ma non va tutto bene per la democrazia. Oggi deve affrontare un pericolo diverso da qualche ideologia generica che nega sistematicamente i principi democratici. La minaccia è il populismo, una forma svilita di democrazia che promette di tener fede ai massimi ideali democratici (“Potere al popolo!”). Il pericolo viene dal mondo democratico e gli attori politici che presentano la minaccia ne usano il linguaggio. Il risultato finale è una forma di politica palesemente antidemocratica che dovrebbe preoccuparci tutti, dimostrando la necessità di stabilire con precisione dove finisce la democrazia e dove comincia il pericolo populista.

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