Gilet gialli, carovane e socialisti: quanto ci piacciono le proteste degli altri

21 Novembre 2018

Incredibile quanto ci piacciono le rivolte quando le fanno gli altri, una passione, proprio. Leggendo le cronache dalla Francia, anche quelle più “legge & ordine”, traspare una sorta di invidia non detta, di ammirazione sottaciuta, come un’inconfessabile stima per una mobilitazione così spontanea e tenace. Non tanto per gli obiettivi della protesta dei gilets jaunes (che restano molto francesi e assai trasversali), quanto per la loro tenacia. Ci piace insomma il pensiero dei francesi che si incazzano, come da canzone del Maestro, ma ogni volta quel che si ammira è che lo fanno seriamente. Già capitò ai tempi del grande sciopero dei mezzi pubblici, quando si magnificò la solidarietà dei parigini, pur azzoppati nel loro spostarsi, con i lavoratori in lotta. Non scioperanti e utenti divisi, ma cittadini uniti, si disse, cronache che scaldavano il cuore, mentre se succede qui, anche un minimo sciopero dei treni, ecco le grida di allarme sull’Italia “paralizzata” e la prepotenza sindacale.

Insomma, ci piacciono molto la protesta, la rivolta e persino la sommossa (specie se ceto medio-oriented), a patto che non succeda qui, e se un qualsiasi movimento di protesta si azzardasse qui da noi a occupare strade e autostrade o depositi di carburante, si griderebbe – destra, sinistra, sopra, sotto – all’eversione (non a caso il decreto Sicurezza contiene gravi inasprimenti di pene per blocco stradale, per esempio).

È un bizzarro strabismo politico-culturale, tutto italiano, molto ipocrita, che abbraccia il pianeta. La marcia dei migranti dall’Honduras agli Stati Uniti è un altro caso di scuola. Una migrazione in piena regola, che riscuote ammirazione e pressoché unanimi consensi, almeno a sinistra. È una cosa biblica, contiene molto Garcia Màrquez, migliaia di persone che vanno a piedi, coi trolley e le valigie, i bambini e i nonni fino a Tijuana, e lì cominciano a bussare al muro per avere una vita migliore. Muy sentimiento, eh! Se invece succede qui la musica cambia un po’, niente più flauti andini e canzoni di protesta, cominciano i cori del non-possiamo-accoglierli-tutti, gli aiutiamoli-a-casa-loro (cfr: Salvini), e aiutiamoli-davvero-a-casa-loro (cfr: Renzi). Insomma, gli opposti minnitismi, e magari, come già si fece, accuse di “estremismo umanitario” a chi crede nell’accoglienza e magari la pratica. Ci piacciono i migranti degli altri, insomma, pieni di rimandi letterari, soddisfano un nostro bisogno di etica e ci ricordano vagamente cosa sarebbe la giustizia sociale. Perfetti, finché stanno dall’altra parte del mondo, fuori dai coglioni.

Ci piacciono molto anche i socialisti degli altri. Il caso di Alexandria Ocasio-Cortez conferma in pieno. Con grande attenzione, i media italiani hanno seguito l’ascesa della giovane democratica, fino all’arrivo al Campidoglio di Washington. Hanno persino lodato il suo dichiararsi esplicitamente socialista. Che brava, che coraggio, bene! Che bella la copertina del New Yorker! Tacendo però il dettaglio che se qui, qui da noi, emergesse una voce dichiaratamente socialista – più diritti economici, meno rendite, meno profitti, più reddito da lavoro più diritti agli immigrati, più scuola pubblica – verrebbe trattata come un appestato, affetto da novecentismo, bacucco, via, sciò, come si permette, lasci fare ai mercati, che la sanno lunga. Se dici “socialista” a New York sei un’esotica benedizione per i tempi nuovi che verranno, ma se lo dici qui ti lapidano perché “non aiuti le imprese” e qualunque idea di conflitto sociale pare obbrobriosa.

È uno strabismo anche sentimentale, perché, insomma, almeno a sinistra piace ancora l’impianto, chiamiamolo così, ideal-romantico della rivolta e della reazione all’ingiustizia, dei deboli che si ribellano al potente, ma solo in cartolina, e più è spedita da lontano e meglio è.

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