Educazione e Islam in uno Stato laico

30 Agosto 2017

Il caso della bambina di religione cattolica di 5 anni che – secondo il Times – non può indossare la croce e non può più mangiare la pasta alla carbonara perché è stata affidata a una famiglia islamica tiene banco da due giorni sui media di tutto il mondo. I contorni dei fatti sono ancora imprecisi e quindi è giusto mantenere un certo margine di prudenza nel giudizio, ma non si può negare il problema. Invece molti giornalisti e blogger di estrazione progressista, sia in Italia sia in Gran Bretagna, hanno optato per la negazione o persino la condanna dello scoop del Times. I fatti.

L’articolo pubblicato in prima pagina riporta passi virgolettati di un “rapporto confidenziale delle autorità locali” nel quale si affermano alcune cose: una bambina di 5 anni, nata in Gran Bretagna, battezzata in una chiesa cattolica, da sei mesi è affidata temporaneamente a famiglie islamiche. Il Times per ragioni di privacy non indica la ragione dell’allontanamento temporaneo dalla famiglia naturale perché renderebbe identificabile la minore. La bambina è stata affidata per 4 mesi a una signora che indossava un velo tipo niqab quando portava a spasso la ragazzina e ora a una signora che indossa un burqa nero. La bambina avrebbe detto a qualcuno (probabilmente alla mamma o all’assistente sociale) che le sarebbe stato impedito di portare la sua catenina con la croce al collo, che non voleva restare con la famiglia affidataria perché parla arabo e non inglese; che le sarebbe impedito di mangiare un piatto di pasta alla carbonara ricevuto dalla mamma naturale (di origini italiane?) per via della pancetta. Inoltre la ragazzina avrebbe riferito che le è stato detto: “Le donne europee sono stupide e ubriacone” e “la Pasqua e il Natale sono feste stupide”.

Il quotidiano britannico pubblica estratti virgolettati della relazione e una fotografia della bambina con una donna di spalle con un velo nero: la signora affidataria. Il giudice Melita Cavallo, ex presidente del Tribunale dei minori di Roma, ieri ha spiegato a Repubblica come si è comportata una famiglia affidataria napoletana in un caso simmetrico con un ragazzino islamico marocchino affidato temporaneamente all’età di sette anni: “Niente maiale a pranzo e la madre lo mandava alla moschea”. La differente sorte dei due ragazzini, a tavola e in Chiesa, mostra il limite dell’applicazione del principio di equivalenza tra le culture (una conquista dell’antropologia europea dai tempi del polacco Bronislaw Malinowsky, che lo enunciò nel 1912) alle culture che non lo riconoscono.

Per spiegare meglio il senso di questa affermazione torna utile il caso – di cui mi sono occupato quando lavoravo al gruppo Repubblica nel 2000 – di Erica, la ragazzina di 14 anni figlia di un’italiana, Stefania Atzori, e di un avvocato egiziano, Esham Abou El Naga che si era rifugiata nell’ambasciata di Kuwait City. Erica, il nome è di fantasia, insofferente ai precetti della religione islamica, non voleva stare con la famiglia del padre ed era fuggita dalla vigilanza dei nonni a Kuwait City perché voleva raggiungere la mamma in Italia, contro la volontà del padre. Il caso fu al centro di un braccio di ferro internazionale risolto all’italiana: la ragazzina (che oggi sarà trentenne) fu portata in Italia di soppiatto dal sottosegretario del governo italiano, Franco Danieli, con un nostro aereo di Stato. Chi scrive diede la notizia al padre mentre la figlia era ancora in volo, in una conversazione poi sintetizzata in un’intervista pubblicata su Repubblica. Il punto di vista espresso dal padre di Erica può essere utile per comprendere il caso di Londra. In quanto padre, era lui – per il suo Dio – l’unico responsabile della corretta educazione della figlia. La scelta educativa non era discrezionale: “Se non riuscirò a educarla secondo le regole della nostra religione – mi spiegò sincero – io sarò condannato alla dannazione eterna”. La legge e la regola religiosa erano dalla sua parte. Magari il Times ha scritto delle inesattezze. Magari la mamma ha detto delle falsità sulla carbonara. Però perché non chiederci la ragione profonda di questa asimmetria comportamentale? Per quale ragione la ‘mamma’ con il burqa di Tower Hamlet non si comporterebbe come la ‘mamma’ napoletana?

Perché a Londra si toglie la croce a una bambina cattolica mentre il ragazzino marocchino va alla Moschea e mangia la pasta senza pancetta? Forse perché la mamma napoletana segue una cultura che predica e applica l’equivalenza tra le culture mentre una parte importante della popolazione di cultura islamica – anche in Europa – non la predica e quindi non la pratica. Perché escludere che la mamma con il burqa di Tower Hamlet oggi, come il padre di Erica nel 2000, senta di essere tenuta – per un dovere superiore – a radere al suolo la cultura di origine della ragazzina cattolica. Se così fosse, sarà il caso di misurarsi con il vero problema: si può ammettere l’equivalenza delle culture in uno stato laico anche quando in campo c’è una cultura che non ammette il principio di equivalenza stesso?

(modificato dall’autore rispetto alla versione cartacea)

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