L’intervista

Corrado Guzzanti: “La sinistra snob ha bisogno di rutti”

Dopo tre anni di assenza dalla televisione, Guzzanti mette nello scrigno delle sue maschere memorabili e interpreta in Dov’è Mario?. La nuova serie prodotta da Wildside e Sky Atlantic e trasmessa sullo stesso canale in 4 episodi da mercoledì 25 per la regia di Edoardo Gabriellini

22 Maggio 2016

Le storie di ieri: “A 15 anni volevo fare il disegnatore di fumetti, ero presuntuosissimo e mandavo tavole alle riviste specializzate. Non solo non le acquistavano, ma non rispondevano neanche. Allora spedivo lettere patetiche e feroci accusando gli editori di miopia e incapacità ‘Questa è modernità signori miei, non avete capito un cazzo’. Poi la passione per il disegno si consumò ai tempi del liceo e con un mio carissimo amico iniziai a scrivere cose che avevano una pretesa di serietà. Passò poco tempo, le rilessi e mi sembrarono orribili. Così cominciai a trasformarle in parodia. I miei primi personaggi sono nati da lì”.

In un camerino che pare una cella di contenzione, Corrado Guzzanti si prende la libertà di confondere i cibi sul tavolo: “Ho osservato quella mozzarella con il sesamo convinto fosse una meringa con il cioccolato”, senza concedersi il lusso della fuga. In un’ora fumerà due sigarette, berrà un caffè, riderà spesso di sé e della vita che si è scelto: “Per usare un eufemismo, di me non ho una grandissima opinione”. Di ripensamenti critici, riflessioni a posteriori e sdoppiamenti, è fitta la giornata di Mario Bambea, intellettuale in crisi di identità, il personaggio che dopo tre anni di assenza dalla televisione, Guzzanti mette nello scrigno delle sue maschere memorabili e interpreta in Dov’è Mario?. La nuova serie prodotta da Wildside e Sky Atlantic e trasmessa sullo stesso canale in 4 episodi da mercoledì 25 per la regia di Edoardo Gabriellini. Corrado Guzzanti l’ha immaginata, divertito e complice, con Mattia Torre.

Una lavorazione lunga e molti ripensamenti in corso d’opera: “È stata tolta tanta roba, era tutto eccessivamente verboso e io scrivo troppo. Per cui mi hanno tenuto lontano dalla sala di montaggio, mentre ero fuori hanno ammazzato molte cose e se devo essere onesto, hanno fatto molto bene”. Al centro di Dov’è Mario?, il signor Bambea, figura di riferimento della sinistra italiana che sopravvissuto a un incidente in auto scopre l’altra parte del suo Io e di notte, facendosi chiamare Bizio, sale trasfigurato sul palco di un teatrino per estasiare il pubblico con una comicità scorretta e di grana grossissima.

Guzzanti, chi è veramente Bambea?
Un disorientato. Una figura stilizzata. Un 55enne frustrato e prigioniero di quel che rappresenta che aveva soltanto bisogno di un alibi per inscenare il suo opposto. Uno che ha l’intimo desiderio di svaccare, di mandare a cacare tutto e tutti. Un cascame novecentesco sopravvissuto all’estinzione. Forse il meteorite che ha distrutto il suo universo di riferimento è già caduto da un pezzo, ma nessuno lo ha avvertito.

Qualcuno si è riconosciuto?
Io e Mattia Torre, che per mettere in piedi la serie e il personaggio di Bambea è stato fondamentale, volevamo raccontare una specie di creatura inesistente, ma insomma, magari qualcuno che scrive su MicroMega e forse su Limes, magari, potrebbe riconoscersi.

Bambea è di sinistra.
Avevamo il timore di forzare il ritratto e paura che il pubblico parteggiasse eccessivamente per Bizio, l’alter ego cafone di Bambea. Né io né Mattia volevamo cadere nel clichè opposto, nell’attacco indiscriminato all’intellettuale di sinistra che era stato un caposaldo del berlusconismo. Il notissimo “dàgli al letterato” al grido di “sono solo tromboni, azzeccagarbugli, vuoti parolai, teste di cazzo che campano con i nostri soldi”. All’epoca, quel discorso, liberando in apparenza l’anima popolare del Paese e lenendo i complessi di un pezzo di Italia che dal cosiddetto dibattito pubblico era stata sempre esclusa, ebbe una certa efficacia e si prestò per contrappasso a una lettura satirica. Riprodurlo ad anni di distanza avrebbe avuto poco senso.

Della vacuità di certe terrazze gauchiste si era già occupato Sorrentino ne La grande bellezza.
Sorrentino racconta la vuotezza di certi ambienti, la sensazione che la reggia di Versailles sia agghindata a festa per un party finito da un pezzo. Bambea, proprio come certi personaggi del suo film, non conta più nulla. Non se lo fila nessuno. Ha il bagagliaio pieno di libri invenduti. C’era una battuta a cui tenevo molto in cui nelle ore in cui non si ancora sapeva se Mario sarebbe sopravvissuto all’incidente, i colleghi parlavano di lui: “È morto di stima, l’hanno stimato tutto”.

Bambea, ci diceva, è una creatura novecentesca.
Non si è adattato al cambiamento come certi giovani rampanti a proprio agio nei talk show e non ha più alcuna possibilità di orientare la pubblica opinione come un tempo. Vive un crepuscolo e si accompagna a una moglie rompicoglioni che non lo ama e verga insopportabili romanzetti dai titoli pretenziosi: La casa delle finestre di vetro. Cose apparentemente impegnate e in realtà cialtronissime.

Quanti Bambea ha incontrato nella sua vita Corrado Guzzanti?
Li ho conosciuti e ne ho visti un bel po’. Nella Rai di Guglielmi, a fine Anni 80, ho visto gente che sembrava affabile e cordiale e poi si rivelava di uno spietato snobismo. Bambea è come loro. In una scena che poi non abbiamo girato, fa un bagno di democrazia interloquendo con il portinaio: “Come è andato l’esame di sua figlia?” e quando l’altro risponde inorgoglito, Mario è già lontano e si sta chiudendo la porta di casa dietro le spalle.

La serie è stata scritta molti mesi fa, nonostante questo certe intuizioni brillano per contemporaneità.
Fin troppo attuali. Dov’è Mario? è stata scritta all’epoca in cui Renzi era in luna di miele con il Paese e di disillusione e andazzo populista non si sentiva ancora parlare. Abbiamo preferito non nominarlo e trasformare la fase attuale in metafora. C’è un capo con cui nessuno può parlare che vive solo su Twitter e commina pene severissime ordinando esecuzioni improvvise. “Ma il collega della stanza 5 non c’è più?”, “È stato esautorato, dice che era vecchio”.

Dov’è Mario è anche un apologo sul nostro desiderio di essere diversi da come sembriamo?
Sul fatto che tutti dobbiamo nascondere una seconda anima che non vede l’ora di emergere e prendersi un’ora di libertà. L’anima apparentemente nobile e colta e quella svaccata, comunque, dopo aver combattuto, convivono da 20 anni. Fino a Tangentopoli si è respirata una certa seriosità, dopo è arrivata la Lega e abbiamo visto cose che non avremmo accettato neanche in un film di serie b: deputati che ruttano in aula, agitano il cappio, trangugiano mortadelle in diretta.

Sdoppiarsi tra un intellettuale pensoso e un umorista trucido è stato divertente?
Divertente e non difficile perché lo sdoppiamento fa parte della mia normale routine di schizofrenico. Durante le giornate ho dei momenti Bambea e dei momenti Bizio, ma non da oggi. Da anni. Devo dire che ci convivo bene.

E gli altri?
Forse la mia fidanzata ogni tanto si preoccupa. Non so come mi considerino realmente le persone che lavorano con me. Sono super invadente, pignolo e a volte metto bocca dove non dovrei. Quando provo a guardarmi con i loro occhi e ascolto le cose che dicono di me, simpatico non mi sto. Certe volte vorrei sparire, confondermi, mescolarmi, dimenticarmi che esisto persino. Un po’ come Woody Allen che in Io e Annie viene fermato da un poliziotto che gli chiede la patente e lui pur di non dargliela la fa a pezzi: “Non la prenda sul personale, è che ho sempre avuto un grande problema con l’autorità”.

Lei ha avuto problemi con l’autorità?
Ai tempi del Liceo scientifico Nomentano, molto reazionario, tanti. Entrai nel ’79, l’ultimo anno della sinistra assembleare e dei fascisti che arrivavano all’uscita e te le davano. Eravamo alla vigilia di un’era geologica e non lo sapevamo. In pochi mesi cambiò tutto. I più grandi presero la maturità, la parola impegno venne cancellata dal vocabolario e al posto di quel mondo rimasero giovani depoliticizzati, tendenzialmente di destra e un plotone di professori che dopo anni di umiliazioni si rifece con gli interessi nel quadro di una restaurazione vendicativa. Sembravano i maestri di Fellini pronti a bacchettarti sulle mani. Ti davano del lei. Ti facevano alzare. Noi, terrorizzati da persone che potevano nuocerci in molte, sofisticatissime maniere, eravamo tappetini: “Certo professore, comandi professore”. Non proprio come oggi.

Oggi come va?
Non ho figli, ma per esperienza indiretta so che oggi i genitori prendono a calci in culo i professori. Gli menano: “Che cosa hai detto a mio figlio? Chi è che non studia?”. Oggi, a proposito di autorità, assistiamo al suo crollo disperante. Un tema che mi affascina, lo stesso del primo Aniene.

Al liceo Nomentano, comunque, la bocciarono.
Facevo sempre sega a scuola, mi bocciarono per quello. “Guzzanti? Guzzanti chi? Ah, certo, quello che non viene mai”. Recuperai 2 anni in 1 con un miracolo, però la fase salingeriana fu divertente.

C’è chi dice che non sia mai finita e che il suo sogno rimanga quello di giocare in pace alla Playstation.
Mi commuove che giri ancora questo aneddoto, che sarebbe anche vero, se non fosse storia di più di 20 anni fa. In una tournée teatrale del ’96 capitammo in certi paesi in cui non c’era nulla e alle sei scattava il coprifuoco. All’amico che mi accompagnava non importava nulla della qualità della stanza o del corretto funzionamento del termosifone. Arrivava in reception e faceva sempre la stessa domanda: “Avete la presa scart sulla tv?”. Avuto il via libera, iniziavamo. Per qualche tempo poi con un gruppo di amici abbiamo affrontato un solo gioco. Era una specie di quiz. Il computer registrava i tuoi pregressi fallimenti e te li scagliava addosso rinfacciandoteli a ogni nuova partita, anche a mesi di distanza, con l’aria distratta di un Mike Bongiorno sadico: “Corrado, a maggio in geografia non è andata proprio bene, ci siamo preparati meglio stavolta?”.

Cosa ricorda dei suoi inizi?
Non avrei mai pensato di diventare attore. Quando arrivò il primo bollettino della Siae, credetti a un errore e per poco non piansi dalla gioia. Mia sorella Sabina pescò dai cassetti alcuni scritti. Erano cose private, strane poesie in latino, credo che al momento litigammo anche. Le portò in teatro e mi coinvolse in Non-Stop III di Enzo Trapani. Iniziai a lavorare come autore. Le mie cose, giuravano, piacevano tantissimo. Ma venivano regolarmente censurate. Le suore, i pinguini sodomiti, non c’erano neanche discussioni accese. I responsabili venivano da me e mi spiegavano che certe cose – io avrei capito sicuramente – in tv proprio non potevano passare.

Lavorò anche con Antonio Ricci.
In Matrioska, un programma che ci fece conoscere il Berlusconi censorio. Era tutto pronto per la messa in onda e mostrammo un numero zero. C’era un nudo integrale di Moana Pozzi e Berlusconi non ci pensò un momento: “Ma siete scemi? Siete impazziti?”. Matrioska venne sostituito da L’araba Fenice. Lì feci le mie primissime comparsate.

Poi venne Rai Tre.
Guglielmi era una specie di super-Mario Bambea. Dopo un anno di Tv delle ragazze reagì: “Adesso basta con questo femminismo, ci avete rotto le palle, ci vogliono anche i maschi”. La prima trasmissione a cui partecipai come attore fu Scusate l’interruzione, una breve striscia che arrivava prima de Il processo del lunedì. Si sarebbe dovuta intitolare Aspettando Biscardi o Sognando Biscardi. Qualcuno pensò che fosse troppo e per fortuna rinsavì.

Cos’è rimasto dell’avventura satirica dei Tunnel e degli Avanzi?
La sensazione dell’irripetibilità. Era un’epoca diversa. È un bene che oggi esista tanta satira e che il web sia incensurabile, ma a un certo punto – e parlo solo per me – ho avvertito che si era persa la scintilla dei tempi in cui non la chiamavamo neanche satira, ma solo comicità. Non mi ricordo di autori satirici che aspettavano, come combattenti per la libertà, il momento in cui l’Italia si sarebbe finalmente de-sovietizzata. Certo, Beppe Grillo aveva detto quella battuta sui socialisti in Cina, ma francamente, rivista con gli occhi di oggi, era quasi all’acqua di rose.

Quindi?
Ebbi l’impressione che quell’ironia non scuotesse più nessuno e contenesse il rischio di essere organica al sistema. Vidi comparire sul volto dei politici, che prima si incazzavano, l’ombra del compiacimento e persino la preoccupazione di non essere imitati. Decisi di fare altro. Sono felice di aver contribuito, se è accaduto, alla libertà di espressione di chi c’è oggi, ma mi sento un dinosauro. Un artigiano che osserva uno scenario industriale. Noi scrivevamo con l’Olivetti 32 usando bianchetto e scotch. E non divinizzerei neanche il ricordo della tv di allora come io feci con Arbore. Erano cose piacevolmente ruspanti, ma il quadro muta e io sono contro l’accanimento terapeutico. La tv di oggi è come uno specchio rotto con molte schegge. Ognuno si riflette nella sua. La partita, la serie tv, il film. La sensazione di ritrovarsi al bar per commentare Lascia o raddoppia? è tramontata da decenni.

Non c’è più l’Olivetti 32, ma il pigrissimo Guzzanti ha i cassetti pieni di storie.
Lavoro tutti i giorni, l’unica mia pigrizia è nel portare a compimento le cose. Ho sempre avuto tante idee immesse in file enciclopedici che perdo nel computer e che come in un racconto borgesiano nessuno troverà mai. Ogni tanto ne scovo uno e mi dico: “Ma sai che questa non è male?”. Intanto sono passati 10 anni. Regna la confusione e la vita si sovrappone al creare. Ho documenti in cui trovi frasi come “ricordati di buttare la monnezza” o “non dimenticare che è finito il detersivo”.

Cosa le piacerebbe fare domani?
Magari un po’ di cinema o di tv simile a Dov’è Mario?. Non ce ne accorgiamo perché è troppo vicino, ma siamo di fronte a una rivoluzione epocale. Lo dimostrano film come Jeeg Robot o serie tv come Romanzo Criminale o Gomorra. È la fine delle fiction su carabinieri e santi della Rai. Assistiamo agli ultimi fuochi. Quella tv esisterà fino all’estinzione dei telespettatori. Quando i grandi rettili moriranno arriveranno i mammiferi.

Sa che c’è chi la considera un genio?
È molto gratificante, ma anche paralizzante. Mi pare una grande esagerazione. Genio e geniale per fortuna sono parole che vengono usate a vanvera. Io non ho mai preso la satira troppo sul serio. Pensavo fosse una cosa divertente che doveva esserci, ma non l’ho mai ammantata del dovere morale del messaggio. Se mi fossi travestito da vate mi sarei fatto una pernacchia da solo.

Le divise non le piacciono?
No, non fanno proprio per me.

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