“Ci metto la faccia”, la retorica di una élite irresponsabile

24 Aprile 2017

Nei film americani capisci che la catastrofe è in arrivo quando qualcuno dice: “Andrà tutto bene, te lo prometto”. E così nella politica italiana lo smarcamento, la fuga dalle conseguenze delle decisioni prese comincia di solito con un’espressione che sembra indicare l’opposto: “Ci metto la faccia”. Siamo in una “democrazia recitativa”, come la chiama lo storico Emilio Gentile, in cui “metterci la faccia significa” soltanto scegliere la faccia adatta alla circostanza, spendere la propria credibilità quando non è richiesto (al momento delle promesse) per evitare di rischiarla dopo (quando arrivano i risultati).

Per capire le radici del cinismo che ha cancellato ogni fiducia nella politica e – in generale – nella classe dirigente è necessario comprendere tutte le forme che assume questa fuga dalle responsabilità, parte fondante della nostra identità collettiva al punto che da anni giornalisti e politologi cercano di tradurre in italiano il concetto anglosassone di accountability senza riuscirci (“essere responsabili delle proprie azioni”, perifrasi che sottolinea solo l’assenza di una codificazione netta). Nel suo libro Irresponsabili Alessandra Sardoni, inviata del tg di La7 e conduttrice di Omnibus, analizza come il potere si perpetua a prescindere dai risultati, dal consenso e dalle conseguenze del suo esercizio.

La Sardoni si dedica a un genere molto praticato negli Stati Uniti e quasi sconosciuto in Italia, la ricostruzione analitica della storia recente, quella che ancora non si è sedimentata abbastanza da diventare innocua. Si occupa quindi di “irresponsabili” che sono ancora potenti, spesso, proprio perché sono sfuggiti alla propria responsabilità. E sono di due tipi: quelli che hanno negato, glissato, smussato, che sono riusciti a creare un’impressione di distanza tra sé e i problemi così da poter sopravvivere, e quelli che invece non fuggono, ma anzi cementano il proprio potere nel comandare nonostante tutti conoscano i loro scheletri. Più evidente la macchia, più forza deriva dal poterla ignorare.

Appartiene a questo secondo gruppo il prefetto Gianni De Gennaro, oggi presidente di Leonardo-Finmeccanica, uno di cui i giornali non osano (tutt’ora) scrivere nulla di men che encomiastico. Nel primo lungo capitolo la Sardoni ricostruisce la carriera di questo poliziotto, i cui meriti da cacciatore di mafiosi nessuno ha mai messo in discussione, che avrebbe potuto interrompersi a Genova, nel 2001, con la violenza gratuita dei poliziotti sui manifestanti nella scuola Diaz. De Gennaro, capo della polizia dell’epoca, viene prima condannato e poi assolto per l’accusa di aver istigato il questore di Genova a mentire in tribunale. Ma la Sardoni ricostruisce come – in parallelo alla vicenda giudiziaria – tutto il sistema della politica e delle istituzioni si sia impegnato con una sorprendente tenacia a proteggere De Gennaro, la sua carriera e il suo potere. Il prefetto ha così continuato l’ascesa, capo di gabinetto del ministero dell’Interno, capo dei servizi segreti, sottosegretario all’intelligence e poi al vertice di Finmeccanica, grazie a una interpretazione tanto generosa quanto opinabile della legge – già lasca – che limita le porte girevoli tra politica e business.

Il rapporto tra giustizia e politica è uno dei cardini della irresponsabilità. Lo dimostrano, nella storia recente ricostruita dalla Sardoni, casi come quelli degli ex ministri Anna Maria Cancellieri e Maurizio Lupi, ma si potrebbe arrivare al caso Consip o alle traversie legali di Virginia Raggi. A seconda della convenienza politica del momento, il pendolo oscilla tra due estremi. Da un lato l’ approccio per cui tutto ciò che non è reato è lecito, e dunque un’assoluzione (magari anche per prescrizione, per un cavillo inserito ex post o per un colpo di fortuna) chiude ogni dibattito e riabilita chi era sotto accusa. All’altro estremo c’è il disinteresse per il dato penale: condanna, o assoluzione poco importano, un premier, un ministro o un deputato si giudica solo da come lavora, meglio un ladro efficace che un onesto imbranato.

La sana via di mezzo, quella per cui quanto emerge nel corso di un’indagine penale (prima e dopo l’eventuale sentenza) concorre legittimamente alla formazione dell’opinione su un esponente della classe dirigente, ci è sconosciuta. Non solo in campo giudiziario. Alessandra Sardoni ripercorre due vicende che tuttora dividono: la caduta del governo Berlusconi nel 2011 e la riforma delle pensioni di Elsa Fornero alla fine di quell’anno.

Intorno all’arrivo dell’esecutivo tecnico di Mario Monti si è alimentata una teoria del complotto che distorce dati di fatto – la lettera della Bce fu un’ultima occasione concessa alla inconcludente compagine berlusconiana, non un commissariamento – per negare il fallimento di una stagione politica. E gli esodati sospesi tra l’uscita dal lavoro e una pensione rimandata sono tanti, ma non i 390.000 evocati dall’ex presidente Inps, Antonio Mastrapasqua, che nel 2011 aveva interesse a indebolire la Fornero per salvare la propria poltrona: le domande per accedere alle “salvaguardie” introdotte dai governi successivi sono state solo 128.000.

Se la campagna, ormai decennale, contro la “casta” è assolutoria (noi siamo meglio di loro), l’analisi degli “irresponsabili” è una chiamata in correo, soprattutto per i giornalisti. “Loro” fuggono dalle responsabilità. “Noi” – elettori, giornalisti, clientes di ogni tipo – glielo permettiamo.

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