DIECI ANNI SOSPESI

“Se caschi pe’ terra, non è niciunu che te rarrizza”. Forse il proverbio è nato dopo il sisma del 1315, oppure dopo i disastri del 1398 o del 1456. O magari in occasione del Grande Terremoto del 1461. Per non dire di quello devastante del 1703. Ha tremato sempre la terra, così in profondità da entrare nell’anima della gente dell’Aquila; in quel gesto – la mano che trema – che perfino i ragazzi usano per mimare il terremoto. È diventato la storia della città: crolli, disperazione e rinascite.

Se caschi per terra, non c’è nessuno che ti raddrizza. Forse andrebbe bene anche per la grande scossa del 6 aprile 2009. Tante promesse, tanti tradimenti. Quassù erano arrivati perfino i grandi del mondo: nei bar del centro ancora le vedi le fotografie di Barack Obama davanti alla Prefettura che sorride accanto alle autorità. Ma poi dell’impegno americano di ricostruire Santa Maria Paganica non è rimasto nulla. E anche le promesse degli inglesi e degli spagnoli non sono state mantenute. Per fortuna tedeschi, francesi, russi, canadesi e kazachi hanno rispettato gli impegni. Lo stesso i giapponesi, anche se il palazzetto dello sport – un futuristico cilindro luccicante – che hanno realizzato è ancora circondato da grate e barriere. Speriamo che non venga dimenticato così.

Oggi arrivando all’Aquila già da lontano ritrovi quei palazzi avvolti nell’abbaglio dei monti. Vedi decine e decine di gru che ormai fanno parte del paesaggio. Senti il suono dei cantieri, il battere dei martelli, il verso cupo delle betoniere che impastano senza sosta cemento. Ormai è diventato l’odore, il sapore di questo luogo: la calce. “Viene considerato il più grande cantiere d’Europa”, ricorda la restauratrice Rita Maione, incerta tra orgoglio e rassegnazione. Insomma, pietre e palazzi stanno rinascendo – lentamente – eppure non riesci a vedere una città. L’Aquila non c’è ancora.

Sono dieci anni ormai. Stagione dopo stagione le strade si sono ripopolate, riaccendono le prime insegne, anche se sono quasi tutti bar e locali. I miliardi sono arrivati e continuano ad arrivare: il sito dell’Usra – Ufficio Speciale per la Ricostruzione dell’Aquila – riferisce di 5,6 miliardi destinati alla ricostruzione privata di cui 3,6 già erogati con la procedura del “canale diretto”. Parla di 2,2 miliardi destinati ai 1.038 interventi per la ricostruzione pubblica (1,4 già erogati). Non si può dire che L’Aquila sia stata lasciata sola, ma non è tutto bianco e nero, come le ombre taglienti che si infilano nei vicoli del centro storico. C’è tanto grigio.

Sì, la gente è tornata per le strade. Ma è una vita senza direzione, senza meta, come il camminare delle persone. Tante case sono state recuperate, eppure intere strade tra San Pietro e San Domenico sono ancora come la mattina del 6 aprile. Ma non è soltanto questo, i palazzi che di notte sono per metà illuminati e per metà avvolti nel buio. Non ci sono ancora i negozi che servono alla gente (per comprare un tubetto di dentifricio o un etto di prosciutto rischi di uscire pazzo), ma soprattutto gli uffici pubblici: il Comune, la Prefettura, le scuole, la Asl. Il grande palazzo lungo corso Vittorio Emanuele, dove c’era la Camera di Commercio, è ancora una gabbia di impalcature. Palazzo Margherita, sede del Comune, è impacchettato e imballato nonostante le promesse di terminarlo entro il 2016. E davanti alle rovine del Gran Caffè Eden ritrovi la stessa sedia che avevi visto dieci anni fa. Sempre lì. La ricostruzione pubblica è al palo. I luoghi dove i cittadini si ritrovano sono ancora sparsi per le periferie. Il centro è vuoto. Ecco la ragione di questo camminare un po’ senza meta, di questa città senza orari, senza un ritmo.

IL MISTERO DELLE VILLETTE – C’è un’altra città che è cresciuta in mezzo ai prati intorno al centro, così, senza un ordine, senza una pianificazione. Basta seguire le strade che circondano il centro, quel confine invisibile che una volta era la grande bellezza dell’Aquila: la campagna che entrava in città, i prati che arrivavano a un passo dai palazzi storici. Quel verde che una volta a guardarlo dall’alto ti riempiva gli occhi e adesso non vedi più. Qui nei mesi, negli anni dopo il terremoto sono cresciute le villette. Quante sono? Nessuno lo sa. “Tremila, forse quattromila”, allarga le braccia il sindaco Pier Luigi Biondi. Magari anche cinquemila. “Dovevano essere al massimo di novanta metri quadrati l’una”, spiegano in Comune. Ma poi… poi se cammini per queste zone che non si possono neanche chiamare quartieri e stenti a trovare su Google Maps, trovi edifici cresciuti senza forma: due, perfino tre piani. Case e seconde case, una pacchia. “Dovevano essere provvisorie”, racconta il primo cittadino che adesso si troverà davanti anche questa gatta da pelare. Ma vaglielo dire tu a quattromila famiglie – cioè almeno 10-15mila voti – che devono abbandonare tutto e abbattere la loro villetta. Impossibile. Alla fine resteranno lì, c’è da scommetterlo, anche se sulla mappa della città nemmeno le trovi, c’è ancora il verde.

LA PERIFERIA SULLA FAGLIA “Guardate questa mappa del 1939. Era indicato chiaramente, qui c’è una faglia. Lo sapevano tutti, eppure ci hanno costruito interi quartieri”. Antonio Moretti insegna geologia all’università dell’Aquila. Uno di quelli che vengono definiti ‘teste calde’ perché tirano fuori sempre cose scomode. Lui lo diceva già dieci anni fa. Oggi gli tocca ripeterlo: “C’erano interi quartieri, come Pettino, che negli anni del boom edilizio erano stati realizzati tutti lungo la faglia”. Lì dove c’erano stati morti, dove i palazzi si erano spaccati in due come cocomeri. E dopo il disastro cos’è successo? “Hanno ricostruito i palazzi esattamente dov’erano”, allarga le braccia Moretti. Pettino è di nuovo lì, dove dieci anni fa avevi fotografato un palazzo in pezzi come a Beirut adesso ne vedi uno nuovo di zecca perché qui, dove non c’erano i vincoli degli edifici storici, la ricostruzione è andata avanti veloce. In una manciata di anni era tutto come prima, o quasi, la stessa periferia sconclusionata, senza una fisionomia. Ma anche la faglia è ancora lì.

E anche Moretti con le sue denunce: “Forse tutti i palazzi sono stati realizzati a regola d’arte. Sono state rispettate le leggi. Ma le norme prevedevano edifici in grado di resistere ad accelerazioni di picco di 0,3 g., mentre nel 2009 siamo arrivati a 0,7”, per non dire del 1461 quando la lunga, interminabile scossa durò tre minuti. Difficile dire che cosa ne sarebbe della nuova Pettino se dovesse arrivare un altro sisma. “Ogni notte quando vado a dormire ho paura”, racconta Alessandro Tettamanti. E senza accorgersene ripete quel gesto, la mano che trema. Alessandro è giornalista e performer, cura “180 gradi”, una trasmissione per ‘Radio Stella’, emittente web della salute mentale che dà voce anche a chi era ospite dell’ex manicomio di Collemaggio. Già, quei palazzi che una volta ospitavano l’ospedale psichiatrico e oggi cercano una nuova collocazione. Nel gennaio 2009 proprio per recuperare questi luoghi era stato lanciato un progetto – curato tra gli altri dagli architetti Camilla e Carlotta Inverardi – che aveva ottenuto finanziamenti europei. Era previsto un albergo gestito proprio da pazienti psichiatrici, sull’esempio di quanto avviene a Trieste. Poi edifici per l’artigianato e una sala concerti. Ne faceva parte anche il centro sociale CaseMatte. Ma poi arrivò il terremoto. Oggi la speranza è di riuscire a restituire vita a quel progetto e recuperare i fondi europei. Il rischio, anche qui, è l’abbandono di questi padiglioni affacciati proprio sulla basilica duecentesca di Santa Maria di Collemaggio.

LA CITTA’ CHE RESISTE – Non sai da che parte guardarla, L’Aquila. Se dalle rovine di Onna e dalle finestre appese al nulla dei condomini pericolanti a due passi dal centro. Oppure dallo splendido palazzo del rettorato dell’università, appena ristrutturato. Sono tutte e due reali. Ed è vero quello che ti dice Paola Inverardi, la rettrice dell’Ateneo: “Siamo riusciti a tenere viva l’università, una delle grandi ricchezze dell’Aquila. Non solo: oggi in città ci sono eccellenze internazionali come il Laboratorio del Gran Sasso e il Gran Sasso Science Institute. Poi il conservatorio e l’Accademia di Belle Arti. In Abruzzo stanno investendo imprese ad alta tecnologia come Leonardo e Telespazio, c’è il progetto Dark Side per la produzione di sensori ottici per rilevare la materia oscura. C’è un polo chimico e L’Aquila sarà città di sperimentazione della tecnologia 5G. Ancora, sarà realizzato un anello di undici chilometri per la sperimentazione delle fibre e arriverà il centro di Fca per studiare la guida delle auto con il satellite”.

Esiste anche questa città. “L’Italia non ha lasciato sola L’Aquila” sottolinea Michele Renzo, procuratore della Repubblica. E la ricostruzione, se pure non è stata un modello come quella friulana, non è stata nemmeno una mangiatoia senza fine. Anche se ha dato tanto lavoro ai pm che hanno lavorato su una sfilza interminabile di filoni: “Con la Forestale abbiamo aperto duecento fascicoli per tutti i crolli dove ci sono stati morti e feriti. In diciannove casi siamo arrivati a una condanna in Cassazione. Non c’è stata nemmeno una prescrizione”, come racconta il pm Fabio Picuti. E’ aquilano, come la collega Simonetta Ciccarelli, anche questo ha pesato: “Volevamo impegnarci per la nostra città”, racconta lei, ripercorrendo i tanti filoni: “Abbiamo avviato inchieste sull’indebita percezione di fondi pubblici che ci hanno fatto recuperare milioni. Poi c’è stato il fascicolo sulle new town e i balconi crollati che, però, si è dovuto scontrare con il fallimento della società costruttrice”. E ancora: indagini per lottizzazioni abusive, fascicoli sulle ricostruzioni delle chiese e infine su amministratori di condominio che intascavano denaro per aggiudicare appalti alle imprese. Oltre ovviamente all’inchiesta sul mancato allarme, terminata con l’assoluzione della Commissione Grandi Rischi, ma la condanna di uno dei responsabili della Protezione Civile. Dieci anni di inchieste sul dopo terremoto anche perché, come sottolinea Renzo, sulla scia dei crolli qui sono arrivate le mafie: “La criminalità accorre dove arriva una pioggia di miliardi da investire”. Non sono soltanto mazzette, “ma il trasferimento in Abruzzo di metodiche criminali, come lo sfruttamento del lavoro nero. Abbiamo trovato imprese legate ai casalesi che praticavano prezzi concorrenziali, ma poi si rivalevano sulla manodopera. Poi la camorra e la ‘ndrangheta che rilevavano imprese aquilane in difficoltà”. Ma le mafie, in questa delicatissima regione che fa da cerniera tra Nord e Sud, forse non hanno dilagato come sulla costa dove la criminalità calabrese ha messo radici profonde con lo spaccio e il mattone. Non come in altre regioni, vedi la Lombardia e la Liguria. E la Prefettura ha emesso decine di interdittive antimafia.

L’AQUILA COM’ERA, COM’È – Dice così lo slogan della ricostruzione. Tutto tornerà come prima. Ma a volte non bastano le frasi a effetto. Davvero non è tutto bianco o nero. Non bastano i cantieri e nemmeno i miliardi. Sarebbe servito un disegno unitario, ma a Roma si sono succeduti governi di ogni colore e ognuno la vedeva diversamente sulla ricostruzione. Ci sarebbe voluto un filo conduttore. Non è solo un’immagine astratta. “Pensate che occasione straordinaria aveva L’Aquila, doveva essere ricostruita. Poteva diventare una città antica, ma all’avanguardia, ecologicamente più sostenibile, attrattiva e punto di riferimento anche per i territori colpiti da disastri successivi al 2009 (come Amatrice)”, racconta Stagnini. Antica e insieme modernissima. Invece guardali quei fili, centinaia, sospesi ai pali nel cantiere del centro. Quanta fatica per riuscire a realizzare una condotta unica che contenesse cavi e tubi per elettricità, internet e gas.

Eppure c’è davvero la rinascita, ha il volto di Aurora Cacciapuoti che con i suoi lineamenti delicati e la meraviglia negli occhi ricorda Amélie: “Io sono sarda, mio marito molisano”, racconta Aurora, una delle più apprezzate autrici italiane di illustrazioni per bambini, “Vivevamo in Inghilterra dove lui lavorava a Cambridge. Ma abbiamo deciso di mollare tutto e ricominciare dall’Aquila. Lui oggi insegna all’università, io faccio i miei libro.

Ecco, i nuovi aquilani. Eppure le ferite restano. Le trovi il martedì quando la psicologa Rita Petrolini riceve gli uomini e le donne che ancora si sentono dentro la terra tremare. La vedi in via XX Settembre quando incroci Attilio Rambaudi, 82 anni, che cammina osservando gli annunci funebri. Cerca qui i suoi coetanei, gli amici che una volta incontrava per strada e ora chissà dove vivono. Una città che non c’è più. Non basta uno slogan: L’Aquila rinascerà – troppo lentamente – ma non sarà più la stessa città di dieci anni fa. Come spiega Giustino Parisse prima di salutare: “Questa settimana è morto un vecchio di Onna. In una casa di riposo. Tanti altri se ne sono già andati. Il mio paese sarà ricostruito, forse, quindici, vent’anni dopo la scossa. Ma ad abitarlo non saremo più noi”.

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