Oltre il Codice Rosso

Violenza sulle donne, il procuratore Menditto: “Denunciate sì, ma solo se ben assistite”

L'esperienza di Tivoli - “C’è bisogno di una legislazione completa e di operatori formati che seguano in modo coordinato l’autore della violenza nel corso di tutta la sua vita criminale. Come con la mafia. La mancata specializzazione lascia sole le vittime”

10 Luglio 2022

“La violenza contro le donne esiste in Italia, come in Europa e nel mondo intero. Il numero delle denunce è più alto in alcuni Paesi, in altri è addirittura quasi inesistente perché alle donne non è riconosciuto alcun diritto. Se, dunque, il fenomeno è storicamente presente e geograficamente così diffuso, è chiaro che si tratta di un problema culturale. Come lo si affronta? In modo organico. La violenza è solo un segmento del più ampio fenomeno della disparità di effettività dei diritti e di trattamento tra uomo e donna”. Francesco Menditto è il procuratore di Tivoli; già componente del Csm, è stato a lungo presidente di uno dei collegi della sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione del Tribunale di Napoli. Ed è membro del Consiglio direttivo dell’Agenzia nazionale per i Beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. È da qui che partiamo, da una singolare equiparazione tra la mafia e la violenza di genere.

Procuratore, a Tivoli già dal 2017 ha istituito un gruppo di magistrati specializzati nel contrasto ai reati contro le donne e i minori, creando un team di pubblici ministeri, polizia giudiziaria, psicologi. Quasi come fosse un pool antimafia.

Guardiamo il contesto in cui i reati avvengono e troveremo le analogie: le donne non denunciano, si crea un clima di omertà, l’ambiente familiare e quello locale coprono il responsabile e spingono la vittima a ritrattare, l’autore del reato lo ripete nel tempo, nessuno lo ferma, anche dopo il carcere prosegue le violenze. Allora, se l’assimilazione è questa, anche gli strumenti di contrasto devono essere gli stessi. Per le mafie abbiamo magistrati superspecializzati (le Direzioni distrettuali), corpi di polizia egualmente specializzati, la società civile che fa rete, c’è discredito sociale sul mafioso. Come dopo le stragi del 1992 di Falcone e Borsellino è stata approvata una legislazione specifica, dovrebbe avvenire oggi per la violenza di genere. C’è bisogno di una legislazione completa e di operatori specializzati e formati che seguano in modo coordinato l’autore della violenza nel corso di tutta la sua vita criminale, come per i mafiosi.

Ma nel 1992 reagirono insieme la politica e la società civile. Qui tutti parlano di emergenza, ma se non fosse per l’iniziativa dei singoli, come la sua, nessuno farebbe nulla.

Da tempo vi è una piena unità nel contrasto alle mafie. Il contrasto alla violenza di genere, che non è un’emergenza ma un fenomeno millenario, è un tema che a parole vede tutti d’accordo, ma in concreto mostra in molti scarso interesse. Ad esempio, si parla spesso di strumentalità delle querele: le donne denuncerebbero per interesse; tutto ciò in assenza di dati, solo per svalutare la loro parola, spingendole poi a non denunciare. In realtà, alcuni passi avanti ci sono, le leggi ci sono, non sempre sono applicate.

Il Codice rosso che nel 2019 ha modificato la disciplina penale e processuale della violenza di genere è stata una piccola rivoluzione?

Il Codice Rosso ha accelerato le indagini, non i processi. Una misura a tutela donna può essere applicata anche in pochi giorni, ma se poi i tribunali non sono veloci le donne ritrattano o ridimensionano perché non hanno fiducia nello Stato. Inoltre, alle donne che denunciano spesso non si crede, infatti la Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia più volte anche per assoluzioni fondate su stereotipi e pregiudizi sessisti. Questo non vuol dire che non vadano garantiti i diritti degli indagati/imputati, ma che esistono anche i diritti delle vittime.

Ci fa degli esempi? A cosa può andare incontro una donna cui viene ripetuto in continuazione che deve denunciare le violenze?

Che va dai carabinieri e denuncia. Benissimo. Però in quel momento potrebbe anche iniziare il suo secondo calvario, perché magari il carabiniere o il poliziotto non la accoglie in modo aperto come per ogni denunciante e non le crede, o non descrive oggettivamente i fatti che gli sono raccontati ma li filtra in base al suo (pre)giudizio, inquinando il lavoro del pm. E questi magari è oberato di lavoro o non ha specifica formazione e chiede l’archiviazione che poi è resa nota all’uomo denunciato. Se poi sono attivati i servizi sociali, il rischio per le donne può essere quello di perdere l’affidamento dei figli, dal momento che vengono ritenute madri incapaci di difenderli. È un esempio, potrei farne anche per altri settori (sanitari, scolastici, etc.).

Ha ragione, così è un calvario. Ma allora non conviene denunciare…

È opportuno che le donne, a mio avviso, denuncino dopo essersi rivolte a un serio un centro anti-violenza (gratuito) o un avvocato/a super specializzato/a in questo settore (lo Stato paga l’avvocato/a della vittima). Può telefonare al 1522 e le daranno tutti i suggerimenti utili. In ogni caso, come ho detto, si sono fatti passi avanti nella tutela delle donne vittime di violenza, ma non in tutti i territori il livello di tutela è analogo.

Specializzazione mi sembra la parola chiave.

Io posso riferirmi alla mia esperienza, sicuramente altre analoghe ci sono in Italia. Nel territorio della Procura, con 600.000 abitanti, carabinieri e polizia hanno istruzioni precise su come comportarsi, alle donne pongono domande selezionate dalla procura; 5 pubblici ministeri specializzati lavorano sulla base di linee comuni; polizia giudiziaria specializzata ascolta in Procura le donne nei casi più complessi; due psicologhe distaccate dalla Asl informano e seguono le vittime; vi è una rete che funziona e che si riunisce periodicamente. Certo, tutto può e deve migliorare. Come ho detto, competenza e specializzazione sono a macchia di leopardo, pur se tutti gli operatori dovrebbero essere formati per legge: le forze di polizia, i magistrati (inquirenti e giudicanti), gli assistenti sociali, i medici di base, i giornalisti.

Che continuano a scrivere di raptus e di gelosia…

È un errore, i femminicidi non sono quasi mai azioni improvvise ma, ad esempio, nascono dall’incapacità dell’uomo di accettare la scelta della donna di separarsi. Ma di errori la stampa ne commette tanti, a partire (e a volte siamo anche noi magistrati) dal confondere conflitto o lite familiare (quando uomo e donna sono su un piano di parità) e violenza (quando l’uomo esercita violenza verbale, fisica, psicologica, economica). Il contrasto alla violenza passa anche attraverso il linguaggio. Purtroppo, torniamo a preparazione e formazione. Qualche esempio? La Corte europea ha condannato due volte quest’anno l’Italia (e i magistrati) per non avere operato correttamente. Quanti operatori conoscono la Convenzione di Istanbul che impone agli Stati e alle Autorità di tutelare le donne fissando chiare regole di condotta?

Il mese scorso a Vicenza un uomo ha ammazzato due donne appena uscito dal carcere, dove aveva scontato una pena per lesioni (proprio nei confronti di una delle vittime). Cosa non funziona nel sistema penitenziario? Non rieduca, come previsto dalla Costituzione?

Non entro nel merito di singoli casi. In generale, per la violenza ai danni delle donna la recidiva è dell’85%. Occorrono due livelli di intervento. Uno: deve funzionare il carcere, devono essere incrementati i percorsi interni di rieducazione per favorire chi vuole cambiare e farlo allontanare dalla violenza. Due: è necessario garantire la tutela della persona offesa anche quando il condannato (maltrattante, stalker) viene scarcerato se è ancora pericoloso. Torno all’antimafia: le Direzioni distrettuali indagano anche quando la persona è in carcere e dopo la scarcerazione. Ecco, bisogna comportarsi allo stesso modo: verificare se l’uomo è ancora pericoloso, in caso positivo applicare una misura di prevenzione, così alla scarcerazione gli è imposto il divieto di avvicinarsi alle vittime. A Tivoli accade nel 70% dei casi.

Misura come i braccialetti elettronici, che la vulgata sostiene non ci siano?

Sui braccialetti elettronici si è creata una scandalosa disinformazione, si diceva che non ve ne fossero abbastanza. Dal 2018 è falso: il contratto stipulato dal ministero dell’Interno impone a una grande azienda di fornire ogni mese 1.200 apparecchi, al massimo tra i 4 e i dieci giorni dalla richiesta. Personalmente ho constatato che in caso di pericolo imminente lo applicano in sole 24 ore. Anche a Tivoli “girava questa voce”, ho chiesto se vi fossero, mi hanno risposto “tutti quelli che vuole”, abbiamo informato i Giudici che oggi applicano il braccialetto costantemente.

Ma i braccialetti, nel caso di allontanamento dalla casa o di divieto di avvicinamento, non sono una misura obbligatoria, l’uomo può anche non accettarla.

Tra le proposte del disegno di legge in discussione al Senato, che mi auguro sia approvato presto, c’è anche questa. Ma, al momento, la volontarietà non deve essere un alibi. Non ci si può arrendere di fronte all’uomo che si oppone, sarebbe una sconfitta per lo Stato. Noi avvisiamo l’indagato che il rifiuto può dimostrare una ulteriore pericolosità, tale da fare aggravare la misura e, oggi, il consenso è prestato. Vorrei ricordare anche che il braccialetto non significa soltanto la cavigliera applicata all’indagato: significa poter consegnare alla vittima un apparecchio simile a un telefonino che si attiva quando l’uomo si avvicina e allerta automaticamente polizia e carabinieri. Non è una forma di controllo sulla donna, ma una tutela ulteriore perché tutto avviene in automatico.

Procuratore, come si contrasta la violenza?

Credo che la situazione migliorerebbe se ci muovessimo come in Spagna, un Paese che da anni ha una normativa organica per contrastare la violenza di genere, affrontando anche il tema della parità uomo-donna in tutti i segmenti sociali e culturali interessati (educazione, informazione, sanità, autorità giudiziaria anche con Tribunali specializzati, ecc.). Occorre un impegno costante e a 360°, a partire dalle scuole elementari, col coinvolgimento di ogni segmento della società nel rispettare i diritti delle donne, evitare discriminazioni in concreto, rimuovendo pregiudizi e stereotipi.

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