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Fq Millennium in edicola dal 16 marzo – Goria, Tabacci e Andreotti: i papà dc del Draghi politico

Anno 1983 - Fanfani sostituisce Spadolini (Pri) a Palazzo Chigi e al Tesoro arriva un giovane consulente formatosi negli Usa e consigliato da Prodi e Andreatta

15 Ottobre 2021

È il crepuscolo del 1982, alla vigilia dell’Avvento natalizio, e Giovanni Marcora dovrebbe fare il presidente del Consiglio. A Palazzo Chigi si è chiusa una fase storica, quella dei due governi di Giovanni Spadolini, leader del Partito repubblicano italiano e primo esponente non democristiano alla guida dell’esecutivo. Il timone della nave di Palazzo torna alla Balena Bianca (la legislatura si sarebbe chiusa pochi mesi dopo, nel giugno del 1983) e così il prescelto è Marcora, già ministro e soprattutto il fondatore della “Base”, un gruppo politico culla della corrente della sinistra dc. Quella di Ciriaco De Mita, Virginio Rognoni, Mino Martinazzoli e Nicola Mancino più altri poi approdati alla Terza Repubblica, come Bruno Tabacci e Clemente Mastella.

Marcora però è gravemente malato (muore nel successivo febbraio) e rinuncia alla designazione. La Dc ripiega su Amintore Fanfani, cavallo di razza al suo quinto governo, e la sinistra basista fa debuttare nell’esecutivo uno dei suoi “giovani” più promettenti: l’astigiano Giovanni Goria, economista di talento appena trentanovenne.

Goria eredita il Tesoro da Beniamino “Nino” Andreatta, altro peso massimo del “progressismo” dc. (…) Goria insedia Tabacci come capo della segreteria tecnica. Alcuni mesi dopo, nella primavera del 1983, si ritrova però senza due consulenti scelti a suo tempo da Andreatta: Fabrizio Galimberti, che diventa corrispondente da Londra del Sole 24 Ore e Vincenzo Visco, che si dà alla politica candidandosi come indipendente nelle file del Partito comunista.

Goria cerca dunque dei sostituti. Racconta a Fq Millennium Tabacci, oggi sottosegretario proprio nel governo Draghi: “Goria chiamò Innocenzo Cipolletta, a me chiese di trovare l’altro. Dopo alcuni tentativi, Romano Prodi mi parlò di un giovane brillante, che rientrava in Italia alla fine di un ciclo di perfezionamento al Mit con il professor Franco Modigliani, che due anni dopo avrebbe preso il Nobel per l’Economia. Era Mario Draghi. L’ho incontrato due o tre volte, poi ho proposto la sua nomina”.

Draghi ha 36 anni e divide la stanza con Cipolletta, futuro direttore generale di Confindustria e futuro presidente delle Ferrovie dello Stato. “Quell’esperienza”, ha raccontato Cipolletta in un’intervista, “dette a Draghi la possibilità di passare dall’accademia, da cui proveniva, all’amministrazione che avrebbe poi caratterizzato tutta la sua carriera, dalla Banca mondiale alla direzione generale del Tesoro, dalla presidenza della Banca d’Italia a quella della Banca centrale europea. Credo sia stato un passaggio certamente molto utile per la sua formazione”. Ma non basta. Perché la “nascita” di SuperMario nelle istituzioni, sotto l’egida della sinistra democristiana, ha anche un altro padre, oltre a Tabacci e Prodi. (…). E, cioè, il già citato Andreatta. Anche lui dà ottime referenze a Goria sull’accademico formatosi negli States. Del resto l’ex ministro che diede vita all’Arel (l’Agenzia di Ricerche e Legislazione che ha avuto come segretario generale anche Enrico Letta) è stato ufficialmente riconosciuto come mentore dallo stesso Draghi, privilegio che l’attuale premier riserva a pochissimi eletti. È accaduto a metà settembre del 2020 a Bologna, alla cerimonia di intitolazione ad Andreatta dell’aula magna della Business School. Ha rivelato Draghi: “La generosità di Andreatta ha toccato anche la mia carriera. Senza conoscermi personalmente, come era nel suo stile, prima mi segnalò per l’Università della Calabria, e poi indicò a Federico Caffè l’esistenza di una posizione di Politica economica alla facoltà di Sociologia dell’Università di Trento. Fu il mio primo incarico di ritorno dal Mit”.

Dunque: Goria, Andreatta, Prodi e Tabacci. La sinistra della Balena Bianca. Nonostante, ricorda un altro testimone di allora, “Draghi avesse simpatie repubblicane”. Insomma, un trasversalismo pragmatico che fa di Draghi un sapiente economista che sa come destreggiarsi tra i marosi del potere e della politique politicienne.

Una dote, questa, che influirà sulla sua nomina a direttore generale del Tesoro nel 1991, in un’altra èra politica, quella del sesto governo Andreotti. Fino al 1990, Draghi è stato direttore esecutivo della Banca Mondiale, a Washington, spedito lì da Goria, ancora al Tesoro, durante il primo esecutivo di Bettino Craxi, e in quel momento è consulente di Bankitalia. Tra i ministri del Divo Giulio ci sono Carli al Tesoro, Paolo Cirino Pomicino al Bilancio e Rino Formica alle Finanze. Carlo Azeglio Ciampi è invece il governatore della Banca d’Italia. Un politico di alto rango di quell’epoca rivela che la spinta decisiva per Draghi al vertice del Tesoro arrivò da Giuliano Amato, vicesegretario craxiano del Garofano.

Nel 1991 a sondare i partiti per conto di Andreotti è il fido ministro Carli. Il sì dei socialisti ha la sponda del Pri e l’ultimo ad allinearsi è il ministro del Bilancio Cirino Pomicino, che ha rassicurazioni dal suo consulente al ministero Lucio Scandizzo.

Nel frattempo l’Andreotti sesto diventa settimo e Draghi, una volta al mese, partecipa alle riunioni coi ministri economici e il governatore Ciampi. Di quei tempi, come ha ricordato Pomicino nei suoi libri, Draghi si è sempre vantato in privato, spiegando come l’Andreotti settimo avesse avviato una risoluta operazione di risanamento dei conti. Un’azione che nei fatti si rivelerà inutile.

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