Un palco per due

Acogny e Doherty, Leonesse della Danza: “Ogni corpo può ballare, conta ciò che si ha dentro”

Le due coreografe, premiate alla Biennale di Venezia, confessano il rapporto che hanno con la scena e con il poliedrico mondo del balletto e tracciano un orizzonte: la contaminazione

Di Angelo Molica Franco
28 Luglio 2021

Sembra essere il margine il terreno di contatto tra due danzatrici e coreografe come Germaine Acogny e Oona Doherty, che più diverse – almeno all’apparenza – non potrebbero sembrare. Rispettivamente Leone d’oro alla carriera e Leone d’argento al Festival della Biennale Danza 2021 di Venezia. La prima, 76 anni, ama presentarsi con il suo nome completo “Germaine Marie Pentecôte Salimata Acogny, nata il giorno di Pentecoste del 1944 e battezzata due volte nella religione cattolica e musulmana”, e aggiunge: “Quando sono nata mi hanno chiamata anche Iya Tunde, che significa ‘la mamma è tornata’ perché somigliavo a mia nonna paterna morta da poco”. Tra tutti questi nomi, guai a chiamarla la madre della danza africana contemporanea: “Non sono ‘la madre’, non sono un guru, né desidero degli adepti. Sono la mamma”. Più asciutta, la seconda (classe 1988), oltre al nome completo e alla professione aggiunge solo la provenienza “Belfast”. Non è un dettaglio anodino se si pensa che, in un mondo il cui centro sono le dimensioni e il potere economico, nessuna terra è più marginale dell’Irlanda o del suo avamposto capovolto, il continente africano. Sarà per questo che entrambe queste artiste hanno creato uno stile di danza unico e riconoscibile, che proprio con quelle porzioni dimenticate del globo ha a che fare. Somewhere at the Beginning (lo spettacolo portato al Festival) è l’assolo in cui Acogny fa i conti con il proprio passato, lo stesso in Hard to be Soft – A Belfast Prayer fa Oona, che ama raccontare di quando le è stata comunicata l’assegnazione del Leone d’argento: “Durante il lockdown ero incinta di Rosaria, mia figlia, e il mio compagno che è sardo era rimasto bloccato in Sardegna. Pensavo che la mia carriera sarebbe finita. Poi ho ricevuto prima un messaggio su Instagram e poi una telefonata da Wayne McGregor. Non potevo credere che sapesse chi ero”.

Foto dello spettacolo Hard to be Soft. A Belfast Prayer di Oona Doherty /ph Luca Truffarelli

In tedesco, il termine Heimat – impossibile da tradurre – significa molte cose insieme: terra, casa, patria, luogo di nascita, origine. Qual è l’Heimat della sua danza?

Acogny: Dentro la mia danza ci sono i gesti di mia nonna paterna di cui porto il nome, i ricordi della mia infanzia in Benin, i colori del posto dove sono cresciuta, il Senegal, le danze tradizionali africane. Quelle radici sono il punto di partenza di tutta la mia vita e la mia arte, ovviamente. Ma c’è anche la scoperta di una bellezza diversa quando ho visto per la prima volta le città europee. Ma più banalmente, anche le cose che vedo quotidianamente, i libri che leggo. Ecco, direi che la lettura di romanzi e poesie mi ispira molto. Soprattutto, però, nella mia danza c’è sensualità e piacere. Infatti parto dal corpo dell’interprete. Ci parlo, devo capire cosa gli piace, cosa non gli piace. Quello che viene dal profondo, quello cioè di cui abbiamo memoria, è molto importante, fa la differenza, ma è anche il terreno di contatto tra tutti. Per questo il mio spettacolo è anche una specie di dialogo tra l’Occidente e il continente africano, sulla ricerca dell’identità che non è mai qualcosa di dato o di acquisito. Tutto quello che ci capita ci arricchisce e ci trasforma senza mai snaturarci.

Doherty: Nel mio spettacolo, per esempio, ho voluto dare una rappresentazione cinematografica della vita a Belfast dove sono cresciuta, con i suoi orizzonti limitati da imposizioni culturali, sociali, religiose: una città che è uno strano posto fatto di un incroci linguistici, gioventù energica e criminale che si mischia alla classe operaia. La sua dimensione quotidiana condita di tic, vizi e coraggio. Un po’ come in Italia Gomorra. Tutte figure assenti dal palcoscenico. Ecco, mi piace insistere da un lato sulla “merda”, sulla “spazzatura” che ci portiamo dentro, che si respira quando si vive e si cresce in luoghi del genere, che è come un muro che devi scavalcare, un ostacolo a cui devi trovare una soluzione. Dall’altro lato, mi provocano molto i concetti di limite e vulnerabilità. Quello che cerco di fare nei miei spettacoli, sia quando li creo sia quando li interpreto anche, è scavare nel dolore umano e spingerlo oltre i limiti.

Il futuro della danza è nella contaminazione?

Acogny: Assolutamente sì. Per esempio, ai miei interpreti dico sempre che non c’è un movimento sbagliato, maldestro, ma solo diverso. Ed è a partire da quella diversità che ognuno trova il proprio stile. Per creare i miei spettacoli, mi lascio ispirare dai miei interpreti e loro da me, creo e improvviso insieme con loro, su di loro, sui loro corpi, sul piacere che provano e che io provo, sulla sensualità che emanano e che mi arriva. Io cerco sempre l’erotismo. Per questo con me danzano tutti i tipi di corpo: piccoli, magri, grossi, alti. Il mio è un movimento unico perché ci sono dentro i tentativi, le difficoltà, i desideri. Nella danza classica si ricerca la perfezione rispetto a un ideale uguale per tutti, io invece lavoro sull’irripetibile, e soltanto un racconto che passa attraverso l’esperienza personale lo è. Credo che il futuro si muova verso una direzione in cui si studieranno tutte le danze, proprio come voleva quel genio visionario di Maurice Béjart.

Doherty: In uno dei quadri del mio spettacolo, racconto la difficoltà tra padri e figli di abbracciarsi, e più in generale, la difficoltà del mondo maschile, o meglio la paura, dei sentimenti e delle emozioni. Tutto nasce dall’esperienza di mio padre e mio fratello. Per danzare questo quadro, ho scelto un mio amico che non aveva mai ballato, per via del suo rapporto con suo padre. Ecco. Questo per dire che, certo la tecnica è importante, io stessa ho frequentato un’accademia, da cui poi sono stata cacciata, la London Contemporary Dance School, ma nel mio spettacolo deve ballare qualcuno che ha nella propria memoria muscolare e gestuale quella purezza. Questo mi permette anche di sovvertire gli archetipi di bellezza e bruttezza, rendendo il brutto bello e viceversa.

Chiudiamo con un gioco divertente: “mi piace/non mi piace”.

Acogny: Non mi piace molto quando specificano che sono una ballerina e coreografa africana. Cioè, sono nera, si vede che sono africana. Sono una ballerina e coreografa, punto! Mi piace vivere in coppia. Quando le luci della scena si spengono, mi piace tornare a casa da mio marito e dai miei figli, ed essere una moglie e una madre.

Doherty: Dirò due cose che mi piacciono. Sono molto severa con me stessa, proprio una rompipalle. Per questo mi piace Belfast: mi mantiene normale rispetto al mondo degli artisti. E poi mi piace il vento: può andare dove vuole, avere diverse intensità. È puro movimento.

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