L'intervista

Le musulmane di Palermo unite: “Saman, un fallimento culturale e istituzionale, non religioso”

Manel Bousselmi è la presidente di Fatima, un'associazione nata nel 2019. Tunisina, due lauree (tra poco), ha intorno a sé 120 donne provenienti da Marocco, Tunisia, Algeria, Bangladesh e Senegal, che coltivano l'inclusione, curano la comunità, combattono il razzismo. E “A Parole Nostre” parla della ragazza di Novellara uccisa: “È la punta di un iceberg, ed è inutile condannare nell'immediato e poi dimenticare, fino alla prossima notizia di cronaca nera. Sono fenomeni gravi, che vanno curati”

Di Michela A.G. Iaccarino
16 Giugno 2021

Saman, “che sia l’ultima”. Saman, “che ha avuto il coraggio di scappare ed entrare in un centro protetto dove rifugiarsi”. Saman, che però è “rimasta intrappolata” ed è un esempio di “fallimento culturale e istituzionale, non religioso”. Saman, che è solo “la punta di un iceberg: ed è inutile condannare nell’immediato e poi dimenticare, fino alla prossima notizia di cronaca nera. Sono fenomeni gravi, che vanno curati, non obliati”. Pronuncia spesso due parole insieme Manel Bousselmi, presidente di Fatima, associazione di donne musulmane nata a Palermo nel dicembre 2019, e sono “inclusione sociale”. Tunisina, laureata in management, ha raggiunto in Sicilia suo padre, cittadino italiano, arrivando regolarmente nel 2014. Ha atteso un anno per poter rivedere suo figlio, che l’ha raggiunta in seguito in Italia: “dovevo dimostrare alle autorità di lavorare e l’ho fatto da badante e mediatrice culturale, all’ufficio migrazione della Cgil”. Presto si laureerà di nuovo: in ingegneria all’Unipa, Università di Palermo. Se agli albori Fatima contava solo sette donne tra i suoi membri, oggi è invece animata da 120 ragazze in arrivo da Marocco, Tunisia, Algeria, Bangladesh e Senegal, che, unite, danno voce a problematiche irrisolte, per coltivare l’integrazione, curare la comunità, combattere razzismo e islamofobia.

Manel, per la tragedia di Saman, siamo tornate a leggere sui giornali o ascoltare in tv della sottomissione di tutte le donne musulmane.

Non siamo sottomesse, ma sottovalutate. Sottovalutarci vuol dire non riconoscere alla donna musulmana le sue sfide, quelle che affronta dentro e fuori la sua comunità. La società ci vede come sottomesse che portano il velo, che non possono fare o capire niente. La realtà dei fatti è un’altra: facciamo tutto. Lavoriamo, curiamo la famiglia, svolgiamo compiti fondamentali, alimentiamo passate e future generazioni. C’è un conflitto mediatico che riguarda l’Islam: descrivono la musulmana solo come un soggetto subente, ma la religione islamica non inquadra la donna in questi termini. L’interpretazione del testo coranico, o la sunna, i codici di comportamento, sono diversi da uno Stato all’altro, da un Paese all’altro, da una società all’altra.

Questi diversi contesti sociali e informazioni vengono spesso omessi o dimenticati quando vengono sommariamente riportati casi di cronaca. Spesso è un puro, lungo elenco di stereotipi e pregiudizi.

Le donne tunisine, per esempio, sono avanti, in termini di diritti, rispetto a quelle che vengono dal Bangladesh. Una situazione non è mai uguale all’altra. Qui le donne spesso si sento marginalizzate e isolate. Questo isolamento, questa mancanza di conoscenza, alimentano fenomeni negativi, come radicalizzazione ed estremismo, che vogliamo estirpare.

Le donne in alcuni Paesi di religione islamica sono condannate a matrimoni combinati, uno di quelli da cui voleva sfuggire Saman.

C’è chi è costretto a sposarsi in giovanissima età, quando è difficile dire no, quando non sai dire “non voglio”, o “non posso”. Quel “no” vuol dire che verrai esclusa e punita, e ti sembra di non avere scelta: ma non è un problema religioso, ma culturale. Ci sono donne che accettano perché è difficile rifiutare, ma anche altre che, decise, si oppongono. Le ragazze hanno paura di rimanere isolate dalla comunità, in primis, dalla famiglia. Anche una donna dell’associazione ha sposato un cittadino marocchino in un matrimonio combinato.

E la vostra associazione l’ha aiutata a terminarlo?

No: lei ha avuto il coraggio di farlo da sola ed ora vive con un altro uomo. Quando ci ha raggiunto, ha raccontato la sua storia. È stata costretta alle nozze con il primo marito dal padre e ha accettato per “sacrificio”, una parola nota alle musulmane, che spesso pagano scelte non compiute da loro. C’è l’imposizione da parte di un padre, di un fratello, a volta della famiglia, che dicono: “questo è il meglio per te”. Ma nessuno deve dire a una donna cosa “è meglio per lei”: lei sola lo sa. Noi a Fatima soffriamo l’assenza di una sede dove dibattere di queste problematiche, combattiamo per ottenere uno spazio dove creare un luogo di dialogo per le ragazze musulmane che vivono qui. Nell’associazione ci sono donne di seconda e terza generazione, o quelle più adulte che sono arrivate in Italia dai Paesi d’origine, ma in comune abbiamo questo: il percorso verso l’integrazione e l’inclusione.

Forse a qualcuno sfugge ancora la differenza tra i due termini.

Integrazione vuol dire cambiare dimensione per essere simile a un altro. Inclusione è ricchezza: l’inclusione nasce dalla nostra identità combinata con quella italiana, in questo miscuglio di orientale e occidentale. Noi vogliamo essere incluse, partecipare e dare il nostro contributo positivo alla società.

Lo avete dato durante i mesi più duri del Covid-19.

Abbiamo distribuito beni di prima necessità, fatto incontri streaming, abbiamo tentato di aiutare i senza dimora: era il nostro segno di solidarietà con l’altro, aldilà di ogni religione e colore, per essere cittadini attivi, che fanno cose positive.

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