Il reportage

Sudan: due anni dopo, militari e civili restano separati in casa. Via dal pantano della dittatura

Di Gwenaëlle Lenoir
19 Aprile 2021

“Hourriyah, salam, adalah!”, “Libertà, pace, giustizia!”, gridavano due anni fa migliaia di persone in tutto il Sudan. L’11 aprile 2019 i generali destituivano e arrestavano Omar al-Bashir, dittatore da quasi trent’anni. A che punto è la rivoluzione due anni dopo? Per molto tempo i più pessimisti hanno temuto il colpo di Stato militare, in un paese che ne ha conosciuti tanti dalla sua indipendenza, nel 1956. Le cose sono andate diversamente. “Nell’estate 2020 la situazione sul piano economico e della sicurezza in Sudan era critica. I militari si dicevano pronti a “rispondere all’appello del popolo” e ad “assumersi le loro responsabilità”. In altre parole si preparavano a prendere il potere. Ma il popolo ha detto no, pronto a sua volta a riprendersi la strada”, spiega Kholood Khair, co-fondatrice del think thank Insight Strategy Partners.

Il colpo di stato militare, dunque, non ha avuto luogo. Altri scommettono ora sulla delusione del popolo e sul rimpianto del vecchio regime. Ma in pochi, malgrado le difficoltà quotidiane, esprimono una tale nostalgia, tranne forse una certa élite dei tempi della dittatura. I Comitati di Resistenza, all’origine della Rivoluzione, continuano a indirizzare la politica del governo restando attivi nelle piazze o aderendo ai partiti politici. Ancora una volta, come durante la rivoluzione, i sudanesi dimostrano una grande maturità politica: “Il paese è stato saccheggiato dal regime di Omar al-Bashir per trent’anni. Due sono troppo pochi per poter risollevare la situazione”, spiegano Intissar al-Aqli, 55 anni, sociologa e attivista del Partito unionista nasserista, più volte imprigionata durante la dittatura, e Sawakin Babiker, 30 anni, ingegnere agricolo e volontaria della Ong Shabab lil Salam (“I giovani per la pace”).

La rivoluzione la lasciato le sue tracce sui muri delle città sudanesi, ci sono ancora scritte come “Ash Shaab yourid” (“La volontà del popolo”) e i ritratti dei suoi eroi. “Non sono più obbligata a chiedere certi libri a bassa voce”, dice Intissar al-Aqli entrando in una delle più antiche librerie di Khartum. Il caffè accanto è diventato il luogo di incontro di studenti e giovani rivoluzionari che, giocando a scacchi, discutono di politica. “Prima non avremmo mai potuto parlare così liberamente”, dicono. Ma la libertà conquistata sembra loro ancora incompleta. Molti rimpiangono che “i militari continuino a controllare il Paese”. La Dichiarazione costituzionale firmata nell’agosto 2019 dai generali della giunta militare post-Omar al-Bashir e dalla coalizione rivoluzionaria delle Forze per la libertà e il cambiamento (Ffc) ha sancito una spartizione del potere per tutta la fase di transizione.

Un generale è ora alla testa del Consiglio Sovrano del Sudan, organo collettivo composto da undici membri, cinque generali e sei civili. I militari occupano inoltre posti essenziali nei ministeri dell’Interno e della Difesa. La Ffc ha accettato questa condivisione del potere nell’agosto 2019 per “evitare un probabile bagno di sangue”. Il delicato accordo dovrebbe concludersi nel 2024. A quel punto le elezioni presidenziali e legislative dovranno permettere di instaurare la democrazia in Sudan. Tuttavia, i militari intendono approfittare di questa fase di transizione per consolidare le loro posizioni, in particolare il loro controllo sull’economia.

“Governano il Paese praticamente senza interruzione dall’indipendenza e non intendono rinunciarvi. Ritengono che i civili non siano in grado di governare”, osserva Aladin al-Hadi. Il trentenne, membro dei Comitati di Resistenza, preferirebbe che il primo ministro Abdellah Hamdok, un ex economista della Banca africana per lo sviluppo rientrato dall’esilio dopo la rivoluzione, si mostrasse più fermo. “Abbiamo bisogno dei militari per difendere il Paese e della polizia per mantenere ordine, non per governare”, aggiunge Ahmed Jamil, compagno di lotta di Aladin. I due amici vivono a Gadaref, città di oltre 300.000 abitanti a 400 km a sud-est di Khartum. In provincia il peso dei militari si sente ancora di più che nella capitale. L’esercito era la colonna vertebrale del regime di Omar al-Bashir, lui stesso militare, e il suo potere non è mai stato scalfito, soprattutto quello dei temuti servizi segreti. I loro ufficiali, in abiti borghesi, sfoggiano la stessa arroganza dei tempi della dittatura. Un’arroganza che Sadiq Youssef, ex segretario generale del Partito comunista sudanese, conosce bene per essere stato arrestato più volte, l’ultima durante la rivoluzione quando aveva 84 anni.

Nella sua casa di Omdurman, città gemella di Khartum, l’anziano comunista parla con voce severa: “I militari sono al comando dall’inizio della transizione. Oltrepassano sistematicamente i limiti del loro potere. Abdelfatah al-Burhan, il generale presidente del Consiglio Sovrano, ha destituito il governatore di Porto Sudan, sebbene questa sia una prerogativa del governo. Ha incontrato in segreto Benjamin Netanyahu, anche se la politica estera spetta ai civili. Sono i militari inoltre a occupare la Commissione per i negoziati di pace. È necessario che il governo agisca in modo più rapido e fermo. L’ho già detto a Hamdok, che è un mio vecchio amico”. Negli ultimi mesi il primo ministro ha preso una serie di decisioni che consolidano il ruolo dei civili nel governo. “Nel dicembre 2020, gli Stati Uniti hanno ritirato il Sudan dalla lista degli Stati che sostengono il terrorismo. Ciò permetterà di nuovo alle aziende straniere di investire in Sudan – spiega Kholood Khair del think thank Insight Strategy Partners –. Certo, questo risultato è stato ottenuto accettando la normalizzazione delle relazioni con Israele. Ma i sudanesi sono pragmatici e vedono il risvolto positivo sull’economica”. Il crollo della sterlina sudanese rispetto al dollaro lo scorso febbraio ha provocato in un primo tempo una forte svalutazione della moneta e un ulteriore aumento dei prezzi, ma i due valori si sono rapidamente stabilizzati. Il dollaro costava 55 sterline al cambio ufficiale, 400 sul mercato nero. “La popolazione ha ritrovato fiducia nel sistema bancario – aggiunge Kholood Khair –. In poche settimane sono stati trasferiti 400 milioni di euro alle banche sudanesi dalla diaspora”, aggiunge Omar Gamar Eddin Ismaïl, ministro degli Esteri dal 2019 a inizio 2021, ora consigliere presso lo stesso ministero. Il profilo di questo ricercatore, difensore dei diritti umani, in esilio dal colpo di stato di Omar al-Bashir, nel 1989, fino all’estate 2019, mostra come sta cambiando la governance del primo ministro Hamdok. In un primo tempo, il suo è stato un governo di tecnocrati, per lo più rientrati dall’esilio, specialisti nei loro rispettivi settori, ma considerati distanti dal popolo. Il nuovo governo, nominato l’8 febbraio 2021, è più politico: “È composto da responsabili dei principali partiti politici e comprende rappresentanti di gruppi armati. È più rappresentativo del Paese”, spiega Anwar al-Hajj, direttore della piattaforma della società civile Sudan Democracy First Group, fondata nel 2010. Questa fase era prevista dall’accordo di pace negoziato a Juba nell’ottobre 2020. La priorità del primo ministro è porre fine ai conflitti interni che affliggono il Sudan da decenni, tra cui quello con il Darfur.

L’Accordo di Juba “prevede una più equa divisione dei poteri e si impegna a rafforzare i servizi di base, come istruzione e sanità, nelle regioni in conflitto – spiega Mahmoud Ayn al-Abdin, fondatore della Ong African Center for Governance, Peace and Transition Studies –. Inoltre, nessuno dei precedenti accordi di pace con il Darfur, firmati sotto il regime di Omar al-Bashir, era mai andato così lontano”. Da allora, rappresentanti dei gruppi del Darfur sono entrati nel governo. Cosa che ha fatto storcere la bocca a molti: alcuni di loro dovrebbero piuttosto trovarsi in un’aula di tribunale e essere giudicati per crimini di guerra. “Queste persone dovranno rendere conto al momento delle elezioni – osserva Saboun, molto attivo nei Comitati di Resistenza –. Sanno che hanno un debito col popolo”.

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