Diritti e ambiente

Tap, la denuncia dei manifestanti: “Noi condannati, i poliziotti violenti ancora senza volto”

Secondo i legali degli attivisti contro il gasdotto, la giustizia in Salento procede a due velocità: mentre per i reati a carico dei cittadini si riscontra un’invidiabile efficienza, per quelli contestati alle forze dell’ordine i fascicoli aperti da tre anni rimangono contro ignoti

Di Maria Cristina Fraddosio
25 Marzo 2021

In Salento la giustizia procede a velocità diverse. Mentre per i reati a carico dei cittadini si riscontra un’invidiabile efficienza, per quelli contestati alle forze dell’ordine i fascicoli aperti da tre anni restano ancora contro ignoti. Lo hanno denunciato i legali degli attivisti No Tap, all’indomani della sentenza di primo grado che ha condannato oltre un terzo dei 92 imputati per reati connessi alle proteste contro la realizzazione a Melendugno (Lecce) del megagasdotto Trans Adriatic Pipeline, proveniente dall’Azerbaigian. Nel comunicato stampa manifestano apprezzamento per “l’amministrazione della giustizia straordinariamente efficiente, con sedici udienze concentrate nell’arco di sette mesi, spesso a distanza di una settimana l’una dall’altra” (Allegato 1). Il tutto in tempi di pandemia. Peccato che tali encomi siano ascrivibili soltanto a una parte delle vicende giudiziarie che ruotano attorno alla costruzione del gasdotto più contestato d’Europa. Mentre gli attivisti, per la maggior parte cittadini incensurati residenti in Salento, di cui molte donne, sono stati condannati dal presidente della seconda sezione penale del Tribunale di Lecce, Pietro Baffa, venerdì scorso con pene in alcuni casi raddoppiate rispetto alle richieste dei pm, dei fascicoli aperti a seguito delle denunce depositate in Procura tra il 2017 e il 2018 per le presunte violenze subite dai cittadini non si sa ancora nulla. “Crediamo – scrivono gli avvocati Francesco Calabro, Alessandro Calò, Giuseppe Milli ed Elena Papadia – sia tempo che le autorità giudiziarie competenti avvertano la responsabilità di rispondere a una domanda di giustizia che non tollera più di essere elusa”. Se per un verso ai No Tap sono stati contestati violazione della zona rossa, dei fogli di via, imbrattamento, accensione di cose pericolose, violenza privata, danneggiamento, resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, con pene che raggiungono anche 3 anni di reclusione, per l’altro restano ancora ignoti i nomi degli agenti che avrebbero esercitato violenza in più di un’occasione contro gli attivisti.

Quella del gasdotto Tap è una vicenda estremamente controversa: nel 2013 il corridoio sud del gas è stato approvato dalle autorità europee come progetto di interesse comunitario (PCI), vincolando il nostro Paese per 50 anni a un combustibile fossile. I rapporti tra l’Europa e l’Azerbaigian, da cui proviene il gas, sono poi finiti in un enorme scandalo per riciclaggio internazionale, che ha travolto anche alcuni parlamentari del Consiglio d’Europa. Tap (il cui 20% è di proprietà di Snam) è l’ultimo tratto (878 chilometri) di un’opera di circa 4 mila chilometri. Nel 2014 ha ricevuto tutte le autorizzazioni ambientali. Tuttavia quei documenti oggi per la magistratura leccese sono illegittimi, tanto che il consorzio internazionale, che ha sede in Svizzera, i bilanci secretati e dalla sua lauti finanziamenti pubblici assieme a quelli di una cordata di banche, è a processo. A Melendugno, nota località balneare salentina, in cui risiedono meno di 10mila abitanti tra l’entroterra e le marine, quando è iniziata la costruzione della centrale che sorge a 400metri dalle case e del microtunnel di 3 metri di diametro scavato sotto la spiaggia, il dissenso della popolazione – mai coinvolta rispetto alla destinazione d’uso del territorio – è diventato sempre più diffuso.

Il paese è stato presidiato da circa 800 agenti. Quello stesso anno è stata istituita una zona rossa con filo spinato, molto più ampia dell’area di cantiere, al cui interno sono finite anche le case: i cittadini residenti non potevano più ricevere ospiti, avevano un pass con un orario di entrata e uscita dalla propria abitazione. Il 9 dicembre di quell’anno meno di un centinaio di attivisti si incamminò tra le campagne, quando – si legge nella querela-denuncia presentata dai legali di 36 di loro – vennero “intercettati da un folto gruppo di poliziotti schierati in tenuta antisommossa, che subito, senza che si fosse creata nessuna concreta situazione di pericolo, li incalzavano con decisione, muniti di scudi e di manganelli”. Nel bel mezzo della fuga molti vennero fermati. “I poliziotti non solo continuavano a inseguirli – scrivono gli avvocati – ma addirittura utilizzavano gas lacrimogeni, lanciandoli ad altezza d’uomo in direzione delle persone. Negli stessi frangenti l’elicottero della Polizia di Stato si abbassava minacciosamente sulle teste dei manifestanti, a pochissimi metri dal suolo, determinando in loro un vero e proprio stato di panico”. Per alcune ore di loro non si seppe nulla. Dai video della Questura emergerebbe che “con fare immotivatamente aggressivo e intimidatorio, gli agenti ammanettavano alcuni manifestanti e poi costringevano tutti, anche gli ammanettati, a sedersi o addirittura ad inginocchiarsi, senza curarsi del fatto che il terreno fosse pieno di pietre e di rovi. Fomentati dalle parole dei funzionari, i poliziotti spegnevano con la massima durezza ogni minima forma di protesta, aggredendo a colpi di manganello chiunque tentasse di sottrarsi alla loro furia cieca o semplicemente di proteggere, facendo scudo con il proprio corpo, le donne inermi rannicchiate per terra in preda al terrore”. Stando agli atti contenuti nel fascicolo, anche i cellulari e i documenti d’identità vennero sequestrati e restituiti in Questura a tarda sera. Gli episodi non finiscono qui: il 9 febbraio del 2018, all’alba, una donna incensurata nei pressi della sua proprietà, limitrofa all’area di cantiere, è stata gravemente ferita. “Mi hanno scaraventato addosso l’inferriata del cancello – raccontò in una conferenza stampa qualche giorno dopo – ho perso i sensi per la botta presa alla testa. Sono rimasta lì sotto schiacciata dal peso. Mi hanno calpestata con gli anfibi, mi sono passati accanto i furgoni a pochi centimetri. Ho temuto di morire”. Anche il fascicolo aperto a seguito della sua denuncia resta contro ignoti da tre anni. Così come quello relativo al caso di un altro cittadino di Melendugno che, nel tentativo di soccorrerla, venne “raggiunto e braccato da due poliziotti, i quali – racconta – senza nessuna ragione, mi aggredivano con una violenza inaudita, colpendomi con il manganello prima sulla spalla sinistra, poi sulla coscia destra e infine, per due volte, sul capo”. I referti medici attestano trauma cranico, ferita alla spalla, contusione ed ecchimosi. Di recente, è stato reso noto un video della Questura finito agli atti del processo contro i No Tap: per uno degli agenti della Digos, non ancora identificato, i manifestanti sarebbero delle “teste di c.” e il sindaco di Martano “quel co…one”.

Sono tanti gli aspetti ancora da chiarire in merito agli avvenimenti accaduti durante la costruzione del gasdotto Tap. Alcuni sono oggetto di un processo, a carico della società, dei suoi vertici e dei rappresentanti delle aziende che hanno eseguito i lavori: oltre ai reati di inquinamento ambientale, contaminazione della falda acquifera con metalli pesanti anche cancerogeni ed espianto degli ulivi fuori dal periodo autorizzato, gli si contesta la realizzazione dell’opera “su aree sottoposte a vincolo paesaggistico, idrogeologico e dichiarate zone agricole di notevole interesse pubblico in assenza di autorizzazioni”. Per la magistratura sarebbero illegittime la Valutazione di impatto ambientale e l’Autorizzazione unica ambientale. Non terrebbero infatti conto degli “effetti cumulativi”. Dai documenti – pubblicati in esclusiva su Giustizia di Fatto – è emerso che anche l’autorizzazione alla costruzione potrebbe essere illegittima. Resta poi il giallo sull’entrata in esercizio dell’opera: ufficialmente Tap ha dichiarato di aver iniziato le prime forniture di gas a dicembre 2020, nei tempi previsti dalla garanzia con gli istituti finanziatori. La notizia – secondo il sindaco Marco Potì – non era confermata perché mancavano tutte le autorizzazioni. Vi sono poi prescrizioni che risultano ottemperate e che dovevano essere concluse prima dell’accensione degli impianti. È questo il caso “dell’installazione sul fondo del mare nell’intorno della condotta di dissuasori”. Ispra e Arpa Puglia, in una relazione tecnica congiunta inviata a giugno 2020 al ministero dell’Ambiente, hanno espresso parere favorevole in merito al progetto presentato dalla società. “La Direzione generale per la crescita sostenibile e la qualità dello sviluppo del ministero dell’Ambiente ha determinato l’ottemperanza”, spiega Ispra. Tuttavia l’installazione al momento non esiste, sebbene la prescrizione la preveda. La concessione demaniale marittima per 50 anni di oltre 3mila metri quadrati non è stata ancora rilasciata. Lo attesta il verbale della Capitaneria di porto di Gallipoli relativo alla conferenza di servizi svoltasi il 4 marzo di quest’anno (Allegato 2). Nel frattempo la società ha annunciato un importante traguardo: “I volumi di gas in arrivo in Europa hanno raggiunto il primo miliardo di metri cubi”.

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