L'iniziativa

Vi racconto Oriana, libera dagli stereotipi che le hanno costruito intorno

Ogni giovedì in edicola con il Fatto Quotidiano “Donne sul fronte”, la prima collana di graphic novel al femminile: giornaliste e artiste che raccontano le grandi inviate di guerra. Questa settimana si parte con Eva Giovannini che ricorda Fallaci

Di Eva Giovannini
18 Novembre 2020

Sono quasi vent’anni, ormai, che il nome di Oriana Fallaci viene usato a sproposito, solo per evocare la paladina della cultura occidentale, dei valori dell’Europa cristiana contro la cultura islamica, per ricordare il suo famigerato “diritto all’odio”. Invece, a proposito di Oriana Fallaci, sarebbe forse più utile ricominciare – a quasi quindici anni dalla sua morte – a considerare la sua vita e la sua produzione giornalistica con uno sguardo più ampio. Liberarla da questa sineddoche culturale per cui si ricorda solo la parte per il tutto, come se i suoi ultimi tre libri, di cui La Rabbia e l’Orgoglio è il più celebre, fossero la sua intera opera.

Questa appropriazione del marchio “Fallaci” come bandierina politica, oltre a essere strumentale, è anche impropria, perché basta aver letto uno qualsiasi dei suoi libri per capire con quanta chiarezza e con quanto sdegno Oriana Fallaci abbia sempre rifiutato di omologarsi a qualsivoglia partito o corrente.

Ecco che, quando una mattina di inizio giugno, mi ha telefonato l’editore di Round Robin per propormi di scrivere un graphic novel su Oriana Fallaci, non ho esitato un secondo ad accettare. Non mi sembrava vero potermi confrontare con pezzi della sua vita finiti ingiustamente nel cassetto. Piccolo flashback: nella primavera del 2016 ero a New York a presentare il mio libro “Europa Anno Zero – Il ritorno dei Nazionalismi” alla libreria Rizzoli (non la storica sede di cui Oriana era frequentatrice abituale, ma quella nuova), e mi decisi ad andare a rendere omaggio alla Maestra, alla giornalista che negli anni della mia formazione più mi aveva ispirato. Arrivai così davanti al civico 222 della 61esima strada, nell’Upper East Side e mi fermai una manciata di minuti in silenzio, davanti a quella porta in cima alle scale di casa sua. Provai ad immaginare quante volte Oriana aveva varcato quel portone, di ritorno da quali viaggi, con quali affanni, con quali profumi in valigia. Restai in silenzio davanti a quella casa ormai vuota ad ascoltare quello che pensavo essere stato il suono prevalente di quell’appartamento: il ticchettio dei tasti della macchina da scrivere. Ricordo anche che provai ad immaginare lo scoppio improvviso di una sua risata, o il “Pronto!” di una telefonata ricevuta a sorpresa. Feci quello che fanno, forse, tutti gli ammiratori di personaggi che non si sono conosciuti, provai cioè a delineare nella mia testa i contorni della persona, cercai di vedere la donna attraverso quel muro che aveva custodito per decenni la sua intimità. L’intimità di un gigante in un corpo tanto minuto. Mi sembrò di riconciliarmi con lei, con la sua complessità, io che da adolescente l’avevo così amata e che invece, appena ventenne, avevo criticato i suoi scritti contro l’islam con la stessa ferocia che le imputavo (ma con infinito meno talento, naturalmente).

Ripensai, davanti a quella casa, alla mia prima intervista televisiva in assoluto, che fu proprio alla sorella di Oriana Fallaci, nella loro casa di famiglia nel Chianti, che buffo il destino.

Dunque, tornando a quella mattina di giugno, con i telegiornali pieni delle proteste americane al grido di black lives matter, ho scelto di raccontare un segmento preciso della sua vita: il suo racconto del Vietnam e il ’68 americano, in cui Oriana fece la spola tra Saigon e gli Stati Uniti, per seguire le piazze che chiedevano la fine della guerra e i neri che vendicavano la morte di Martin Luther King.

Ho ripreso in mano articoli originali de L’Europeo, ho riletto quel capolavoro di Niente e così sia (il racconto dei suoi primi viaggi in Vietnam) e Quel giorno sulla Luna, dal quale ho tratto ispirazione per le prime tavole di questo fumetto, che si apre proprio con Oriana che racconta il lancio della missione Apollo 11. Ho passato al setaccio ogni virgola dell’intervista che Henry Kissinger rilasciò ad Oriana, per selezionare quali passaggi sceneggiare. Ho cercato di ricostruire quali rumori assediassero le sue giornate a Saigon, di immaginare l’odore di tabacco nella sua camera dell’Hotel Continental, mi sono chiesta quali emozioni accompagnassero i suoi primi incontri con François Pelou (il direttore di France Presse a Saigon che, poi, diventò suo compagno), e la cocente delusione di fronte all’impossibilità di adottare un bambino vietnamita.

Ho osato immaginare lo sguardo di Oriana che non avrebbe gradito vedere illustrati alcuni suoi frammenti di vita, sebbene noti, e così, alcune scene, le ho tolte.

Ho cercato di rispettare sempre i suoi scritti, ma mi sono presa la libertà di scegliere.

Ah, mi sono anche molto divertita, e spero che vi divertiate anche voi.

@evagiovannini

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