Marco Travaglio

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23 Giugno 2019

L’altroieri il cosiddetto ministro dell’Interno Matteo Salvini si sentiva tanto ministro della Giustizia. Partecipando a Milano al Festival del Lavoro (per farsene un’idea, si suppone), ha proposto di mettere “in galera chi fa uscire dalle procure e chi pubblica sui giornali intercettazioni senza rilevanza penale e sulla vita privata”. E l’ha detto con l’aria di chi ha fatto una pensata originale, come se centrodestra e centrosinistra non ci provassero da 25 anni. Nelle stesse ore, al Csm, Sergio Mattarella teneva il discorso più severo e drammatico mai pronunciato da un presidente della Repubblica in quell’organo costituzionale, che nell’ultimo mese ha perso per strada cinque dei suoi 16 membri togati elettivi per avere partecipato (quattro da svegli, uno nel sonno) ai conciliaboli notturni con il capo di Unicost Luca Palamara e con i deputati Pd Luca Lotti e Cosimo Ferri su chi nominare procuratore capo della Capitale e come sputtanare chi intralciava quelle manovre. L’aspetto tragicomico della faccenda è che lo scandalo che ha terremotato e decimato il Csm si basa proprio su intercettazioni coperte da segreto e prive di rilevanza penale: quelle chieste dalla Procura di Perugia nell’inchiesta su presunte corruzioni di Palamara, disposte dal Gip, gestite dal Gico della Guardia di Finanza di Roma e trasmesse per la loro valenza disciplinare ad alcuni membri del Csm con l’obbligo di riservatezza, ma pubblicate parzialmente e in comode rate dai tre o quattro giornaloni ammessi al sancta sanctorum.

Trattandosi di atti segreti, chiunque ne abbia pubblicato anche un rigo ha commesso reato. Ma, diversamente che per altri scandali, non risultano indagini sui giornalisti e sulle loro fonti giudiziarie o investigative, di cui dovrebbero occuparsi le Procure di Firenze (competente su eventuali reati dei magistrati umbri) e/o di Roma (competente su eventuali reati di finanzieri romani o di membri del Csm). Noi, che appena possiamo violiamo il segreto e ci battiamo per depenalizzare di quel reato idiota sulla scorta della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, non chiediamo certo di punire i nostri fortunati colleghi. Solo ci domandiamo perché noi siamo indagati da tre anni a Roma per aver fatto sull’inchiesta Consip molto meno di quel che stanno facendo da un mese i giornaloni sull’inchiesta Palamara-Csm. L’aspetto paradossale della vicenda è che, senza fughe di notizie sulle intercettazioni, nessuno saprebbe nulla dello scandalo Csm: assisteremmo ogni giorno alle fughe con tante scuse di membri togati, alle vibranti denunce di Mattarella e del suo vice David Ermini.

E tutti ci domanderemmo perché gli uni se ne vanno e di che parlano gli altri. Perché, in base al Codice penale, nulla di ciò che è stato pubblicato avrebbe dovuto esserlo. E, siccome i pochi fortunati giornalisti in possesso dei faldoni segreti inviati da Perugia al Csm non li divulgano integralmente, ma vi colgono ogni giorno fior da fiore secondo i loro gusti personali, nessuno conosce il quadro d’insieme. Un domani, quando sarà troppo tardi, si potrebbe scoprire che, accanto a una frase sputtanante per Tizio, ce n’era un’altra che lo riabilitava, ma è rimasta nelle penne dei depositari; o che chi oggi pare un santo è in realtà un diavolo, ma è stato graziato dagli omissis giornalistici; o viceversa. Se, sugli scandali di pubblico interesse, il divieto di pubblicazione di atti segreti viene spesso violato, è perché non viene quasi mai perseguito e comunque le pene sono molto basse: il carcere è finto, facilmente sostituibile con un’“oblazione” (una multa di poche centinaia di euro). Ora invece Salvini torna alla carica per alzare le pene e mandare in galera per davvero chi pubblica segreti “non penalmente rilevanti” e sulla “vita privata”. Ma – come quasi sempre gli accade – non sa quel che dice.
Qui di vita privata non se n’è vista l’ombra, a meno di confondere i traffici per pilotare nomine giudiziarie, anche da parte del deputato imputato Lotti, col gossip sulle relazioni sentimentali o sulla salute. Ma tutte, diconsi tutte le notizie fin qui uscite sullo scandalo Csm erano prive di rilevanza penale: infatti i togati che in base a quelle hanno lasciato il Csm non risultano indagati per quei traffici, e nemmeno i magistrati e politici loro interlocutori. L’hanno fatto per questioni di etica e di opportunità e risponderanno eventualmente in sede disciplinare, non penale. Perché, almeno nella magistratura, non basta non commettere reati: si può finire nei guai anche per condotte inopportune, conflitti d’interessi, violazioni moral-deontologiche.

Quindi – paradosso dei paradossi – Salvini usa lo scandalo del Csm, che ha appreso solo grazie alle fughe di notizie non penalmente rilevanti, per chiedere la galera per chi le ha pubblicate. “Non è civile – dice – che i giornali siano pieni di pezzi di intercettazioni senza nessuna rilevanza penale. È una cosa da quarto mondo”. Ma senza quei pezzi di intercettazioni penalmente irrilevanti né noi né lui né altri sapremmo nulla. Se c’è una lezione da trarre dallo scandalo che sta travolgendo il Csm come ai tempi della P2, è che ne sappiamo troppo poco, mentre tutti i cittadini dovrebbero sapere tutto. Per chiarire una volta per tutte chi ha fatto cosa. Il capo dello Stato, come presidente del Csm, dovrebbe chiedere la desecretazione integrale degli atti che hanno indotto i 5 consiglieri a dimettersi o ad autosospendersi e lui a pronunciare il severo discorso dell’altroieri. E metterli a disposizione di tutta la stampa. Così che nessuno sospetti l’esistenza di altri nomi e di altri comportamenti indecenti rimasti coperti. Altro che galera. Come diceva il giurista americano Louis Brandeis, “la luce del sole è sempre il migliore dei disinfettanti”.

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