Sistemi elettorali

L’inutile ipotesi del voto estivo: non sarebbe cambiato nulla

Di Federico Fornaro
14 Maggio 2018

Caro direttore, sarebbe servito a qualcosa, invece, andare a elezioni anticipate, per di più con la stessa legge elettorale? È l’interrogativo che si sono posti milioni di italiani.
A leggere i dati che emergono da una attenta analisi dei risultati nei 231 collegi uninominali in cui il Rosatellum ha diviso il territorio italiano (oltre al seggio della Valle d’Aosta), la risposta è molto semplice: no, nuove elezioni, con grande probabilità, non avrebbe prodotto una maggioranza autosufficiente.

Se si considerano, infatti, “incerti” i collegi dove il vincitore ha fatto registrare un vantaggio in termini di percentuale non superiore al 5% di voti, soltanto in 39 su 231 è ipotizzabile, in linea teorica, un ribaltamento del risultato del 4 marzo scorso. I 39 collegi contendibili non sono, poi, distribuiti omogeneamente dal momento che solamente 6 sono situati al Nord, 16 nelle (ex) regioni rosse (7 in Emilia Romagna e 6 in Toscana), 13 nel Lazio, 3 al Sud e 1 in Sardegna.

Quindi, in 192 collegi uninominali (83% del totale) nuove elezioni non modificherebbero l’appartenenza dell’eletto, salvo un nuovo e non prevedibile al momento, terremoto elettorale. I 39 seggi a rischio sono per di più equamente divisi: 15 hanno visto prevalere il candidato del centrodestra, 12 rispettivamente quello del Movimento 5 stelle e della coalizione del Pd. Differente la prospettiva se si guarda a chi è arrivato secondo e quindi potrebbe essere protagonista di una remuntada. In 23 collegi su 39, infatti, a essere stato sconfitto di misura è stato il candidato del centrodestra, in 10 quello del M5s e in 6 quello del Pd e alleati. È, dunque, il centrodestra quello che potenzialmente potrebbe avvantaggiarsi maggiormente da elezioni anticipate, perché, in linea teorica riconfermando tutti i collegi a rischio e conquistando tutti e 23 in cui è arrivato secondo potrebbe passare dai 109 seggi uninominali del 4 marzo 2018 a 132.

Anche raggiungendo la “magica quota” del 40%, però, il centrodestra si fermerebbe sotto i 300 seggi (295 per la precisione) sempre nettamente al di sotto della maggioranza assoluta dei 316 seggi. Vi è, infatti, da ricordare che nonostante la propaganda indichi nel 40% il livello di consenso per garantire la governabilità, il Rosatellum non prevede premi di maggioranza. Con l’attuale distribuzione geografica del voto (Nord al centrodestra e Sud al M5S, con le ex regioni rosse diventate terra di conquista dei due poli maggiori) il 40% non garantisce un bel nulla: per raggiungere la maggioranza assoluta il centrodestra dovrebbe crescere dal 37% al 44-45%. È dunque il 45% e non il 40 il target di sicurezza per la maggioranza assoluta alla Camera.

Seguendo lo stesso schema per il Movimento 5 stelle si arriverebbe ancora più sotto: 259 deputati su 630, assai lontano dunque dalla maggioranza assoluta. Autosufficienza che, sempre in linea teorica, il M5s raggiungerebbe collocandosi tra il 45 e il 50%. Per parte sua, il Pd, rischia di veder scendere la sua rappresentanza a Montecitorio da un minimo di 84 a massimo 90/95 parlamentari contro gli attuali 110. Ad alto rischio di non superamento della soglia di sbarramento in uno schema di elezioni-ballottaggio tra centrodestra e M5s ci saremmo, ovviamente, anche noi di Liberi e uguali che il 4 marzo abbiamo raggiunto il 3.4% e 14 deputati. Una variabile distorcente con effetti scarsamente prevedibile in assenza di precedenti, è rappresentata, poi, dall’astensionismo in caso di elezioni anticipate fissate domenica 22 luglio. Se si andasse, per esempio, sotto il 60% di votanti su base nazionale potrebbe esserci delle sorprese dovute anche alla possibile innovativa distribuzione geografica dell’astensionismo (minor impatto al Sud rispetto al Nord e analogo fenomeno tra piccoli centri e grandi centri) in ragione del periodo feriale con una stima di circa 4 milioni di italiani in vacanza. In ogni caso, in un Paese alle prese con un astensionismo crescente chiedere ai cittadini di recarsi alle urne a fine luglio rappresenterebbe un autentico schiaffo alla partecipazione democratica. Un lusso, quello della bassa affluenza, che le nostre istituzioni non possono permettersi.

C’è, infine, da ricordare una regola non scritta della politica italiana che evidenzia come chi vuole le elezioni anticipate è sempre stato penalizzato dagli italiani alle urne, da ultimo il Pd di Veltroni nel 2008. Resta, perciò, un dato di fondo: il rischio di un nuovo Parlamento “fotocopia” o quasi di quello del 4 marzo, senza un vincitore dotato di una maggioranza e la ripetizione del balletto dei veti incrociati sull’asse Berlusconi-Renzi che potrebbe aprire scenari di nuova instabilità dagli esiti incerti e pericolosamente vissuti dai mercati e dai detentori del nostro debito pubblico.

 

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