L’intervista - Venantino Venantini

Venantino Venantini: “Mastroianni massacrato dalle donne. Io mandai a quel paese anche Fellini”

Ha girato più di 80 film con i grandi del cinema. In Francia era una star. L'attore è morto nella notte tra l'8 e il 9 ottobre per le conseguenze post operatorie di un'intervento al femore subito la scorsa estate

Di Alessandro Ferruccie Fabrizio Corallo
13 Maggio 2018

Il nome, Venantino Venantini, ai più evoca poco. Il viso no, non è di uno qualunque. Gli occhi, l’espressione, le rughe, la sicurezza non troppo intaccata dal tempo, la gestualità, gli anelli indossati come trofei, raccontano di un uomo che è difficile trovare impreparato davanti agli imprevisti della vita. Ha recitato in tutto il mondo, è una star in Francia (“Mi hanno dedicato una biografia e alcune rassegne cinematografiche”), ha vissuto a Tahiti quando Marlon Brando non era ancora sbarcato (“e l’ho visto arrivare”); ha dormito per strada, ha conosciuto la fame (“quella vera”), ha attraversato l’Europa in Lambretta, non sa il reale numero di figli (“però solo due ufficiali”), si è curato con le foglie di cocaina, ha mandato a quel paese Fellini. Venantino Venantini si siede a tavola. Dopo un minuto lo salutano degli amici: “Stai a fa’ un’intervista? Raccontaje subito la storia del Perù!”

Cosa è accaduto?
Ero lì per un film, 4.000 metri d’altezza. All’improvviso mi assale un dolore terribile ai denti, così corro dal farmacista, gli mostro il problema, e impassibile risponde: ‘Non da me, deve andare di fronte’. Attraverso la strada, ricomincio da capo, spiego la questione a un altro tizio. Anche lui impassibile, mi dà delle foglie: ‘Mastica’. Obbedisco. Dopo due minuti passa ogni sintomo, anzi mi sento bene. E azzardo: ‘Ne posso comprare un po’?’. Claro. ‘Due chili’

Cocaina.
Al ritorno in Italia la polizia dell’aeroporto mi ferma: ‘Cosa trasporta?’. ‘Cocaina, ovvio!’. Scoppiano a ridere e mi lasciano passare.

Il trionfo della verità.
A Roma l’ho regalata a tutti, se qualcuno aveva un dolore, arrivavo con qualche foglia.

Com’è stata la sua vita?
All’inizio gotica, poi barocca, ultimamente rococò.

Gotica.
Sono nato e cresciuto a Roma, piazza Vittorio; ho imparato l’inglese grazie al mercato nero durante la guerra. Finito il conflitto ho lavorato per due anni all’Ambasciata statunitense.

Ancora niente cinema…
In quegli anni Roma ha mangiato grazie agli americani. Cinecittà viveva principalmente per loro, per kolossal alla Quo Vadis, poi sono arrivati Ben Hur e Cleopatra. Io frequentavo gli studios, ero un generico, quindi una comparsa, fino a quando ho conosciuto Bianca Lattuada (produttrice), sorella di Alberto che un giorno mi rivela: ‘Non sei ancora pronto’.

Non si sarà abbattuto.
Per niente, anche perché avevo ottenuto una borsa di studio in Francia grazie alla mia pittura. Quindi con il mio bell’incarico vado da Bianca: ‘Parto, arrivederci’. E lei: ‘Lasciami un curriculum e un posto per contattarti, se trovo qualcosa ti avverto’

Destinazione Parigi.
Sì, in Lambretta, una sorta di moderno Annibale.

Roma-Parigi in Lambretta?
Barattata con un marine: sei giorni di viaggio, un mal di palle totale; quando scendevo dalla sella camminavo come un cow-boy nei film: a gambe larghe.

Addio Roma.
Città spoglia, povera, buia, con prospettive limitate. I miei sogni andavano oltre tutto questo.

Mentre Parigi.
La meraviglia, il sogno. Giravo in Lambretta e godevo di ogni bellezza offerta dalla città.

Però niente cinema.
Mica vero, un giorno arriva Pietro Germi e con una bella parte per me in Un maledetto imbroglio, e grazie alle indicazioni di Bianca. Rifiuto. In quel momento mi sentivo più pittore.

Fino a quando…
Conosco Franco Rossi. Solita scena: lui propone e io rifiuto; poi ai saluti gli pongo una domanda inaspettata, anche per me: ‘Dove girate?’ A Tahiti. ‘Ok, vengo’.

Il fascino dell’esotico.
Non proprio, più che altro il richiamo dei colori di Gauguin.

Il film è “Odissea nuda”.
Enrico Maria Salerno aveva il ruolo di un regista che cade in crisi e si stufa di girare e il produttore, disperato, chiedeva a me di finire le riprese.

Enrico Maria Salerno era capriccioso?
Un grande attore e intellettuale raffinato, ma beveva senza risparmiarsi e nonostante questo in scena era sempre efficace e preciso.

Lei era a suo agio a Tahiti.
Ci sono rimasto un anno intero, ed è stato il primo, reale stop alla mia carriera: mi chiamavano per dei ruoli, ma non volevo tornare, stavo troppo bene; e non sono stato neanche l’unico caso: più di uno sceneggiatore francese, sbarcato solo per scrivere, ha soggiornato più del necessario.

Tahiti è diventata celebre grazie a Marlon Brando.
Ricordo benissimo quando è atterrato sull’isola con l’idrovolante – non c’era l’aeroporto – per girare Gli ammutinati del Bounty: di lui non importava a nessuno, nessuno lo conosceva, lui vagava nell’indifferenza e lì ho pensato: ‘È il posto per me’.

Lo ha conosciuto?
A casa di Nancy Johnson (ereditiera statunitense), lo ritrovai poggiato a una ringhiera mentre fumava una sigaretta; allora vivevo di espedienti e quadretti venduti, così ci ho parlato, e il giorno dopo ne ha acquistato uno per 300 dollari in contanti.

Lei come pittore?
Bravo, però Braque mi ha assestato un ceffone professionale niente male: viene a visitare la scuola di pittura parigina alla quale ero iscritto, si ferma davanti alle mie opere. ‘Non male, da dove viene, giovanotto?’ Da Roma. ‘Ah… permette?’ E mi toglie i pennelli dalle mani. Li poggia. ‘La pianti con queste microscopiche pennellate, sia più ampio, dipinga come un italiano senza scimmiottare gli impressionisti’.

Quanti figli ha?
Due legali, e forse una decina a Tahiti.

Ha guadagnato molto?
Quello mai, a volte benino, ma non è questo il punto…

E qual è il punto?
Un esempio chiarisce meglio: ero a Londra per girare un film con Giuliano Gemma (Troppo rischio per un uomo solo), lui protagonista, il mio ruolo quasi pari al suo; a lui danno un cachet di alcuni milioni a me 350 mila lire.

Bella differenza.
Attenzione: i soldi non sono solo quelli che ricevi, ma quelli che riesci a non spendere.

Gemma era parsimonioso?
Ora ci arriviamo: una sera Giuliano mi domanda: ‘Com’è che esci con tutte queste belle donne? Come fai?’. E io: ‘Tu sei bello, famoso, grande, ma ogni tanto invitane una a cena, magari un pachistano, costa poco’.

Insomma, Gemma era parsimonioso.
Restava tutte le sere in stanza a mangiare scatolette di carne (silenzio). I soldi si fanno così.

Lei come attore, come si giudica?
Ne ho parlato spesso con Marcello (Mastroianni), soprattutto quando ascoltavamo i colleghi lamentarsi per la loro condizione; ogni volta restavamo basiti: ‘Ma che vogliono? Siamo iper pagati, viaggiamo per il mondo, conosciamo le più belle donne, dormiamo in mega hotel; sono pazzi?’.

Va bene, ma lei come si giudica?
Ho partecipato.

Anche Mastroianni non si prendeva così sul serio?
Non era ossessionato dall’ego.

Secondo Umberto Pizzi, Mastroianni non era un seduttore, ma vittima delle donne.
Ha ragione Pizzi, non era in grado di difendersi: subiva. Una volta ero ad Almeria (Spagna) per girare un film francese, insieme a Faye Dunaway, donna stupenda: lei si lamentava per le continue telefonate di Marcello, era ossessionata, ma lo esibiva a volte come un trofeo.

Cosa le è mancato per diventare un big?
Come le dicevo, non perdere tutte le occasioni arrivate, soprattutto non dovevo lasciare gli Stati Uniti.

Come ci è arrivato?
Dopo aver girato Il vizietto, avevo il ruolo dell’autista del ministro.

Successo internazionale.
Film nato senza una lira, non c’erano neanche i soldi per un gettone del telefono: ho accettato sulla fiducia; il produttore, cosa rarissima, dopo aver ottenuto lauti incassi, mi ha consegnato un assegno in bianco. Comunque, dopo quel successo, mi ingaggiano per una produzione di New York.

Serie A…
Un altro livello, due anni fantastici: mi sono pure sposato con quella che sarebbe diventata la madre dei miei figli. E pensare che ero andato solo per girare un film, poi un agente mi prende con sé ‘io ti vendo come il pane’, diceva, e aveva ragione: subito convocato per una soap opera prodotta dalla ABC (storica emittente televisiva negli Usa).

Bel colpo…
Infatti prima di entrare per il provino, mi fermo davanti a uno specchio: ‘Venantì, sei al centro dell’impero, per una volta evita le cazzate e non dire cavolate…’. Due anni di lavoro e una barca di soldi.

Perché se n’è andato?
Sono un coglione.

Le motivazioni di allora?
Un po’ ero scocciato da mia moglie, un po’ sono così…

Ha girato con Yves Montand.
Insopportabile, ma in quel film (Mania di grandezza) c’era uno peggio di lui: Don Jaime de Mora y Aragón, fratello della Regina del Belgio, un montato clamoroso, incapace di recitare, il regista disperato girava per il set e gridava: ‘Ma chi è questo cane!’.

Sarà stato contento Don Jaime de Mora y Aragón…
Neanche se ne accorgeva, stava con la testa altrove, andava in giro con una frusta e ogni tot di passi scudisciava l’aria e sibillava: ‘A morte lo straniero’.

Ma era serio?
Serissimo. Fascista.

Uno dei “suoi” registi è stato Dino Risi.
In me scorgeva qualcosa d’incompiuto, avrebbe voluto valorizzarmi meglio, e un po’ generosamente mi paragonava a Gassman: ‘Sei come Vittorio, ma non ti chiami Vittorio’.

Lei era amico di Gassman.
Molto, uscivamo insieme: Vittorio si definiva lunare, mentre per lui io ero solare. Soffriva molto. Esagerava…

La celebre depressione.
Cercava l’assoluto, andava oltre, si macerava e non era una questione di riconoscibilità esterna: aveva solo perso la verginità, l’innocenza della mente.

Quanto si è divertito?
Molto. E non te ne accorgi, lo capisci quasi sempre dopo.

Il cinema è una passione?
Una passione, è troppo. Diciamo un amore grazie al quale ho girato il mondo e vissuto il mondo.

Cosa intende per “vissuto”?
Mi sono adeguato alle situazioni: se andavo a girare in Marocco, mangiavo prodotti locali, vestivo come loro, fumavo come loro e scopavo le loro donne.

Un’occasione mancata.
Forse quella con Fellini: lo incontro in un ristorante romano, mangiava insieme alla moglie. Ci salutiamo. ‘Scusa Federico, ma qualcosa con te, mai?’ ‘Certo, vieni dopodomani alle cinque al Teatro 5 di Cinecittà’. ‘Per?’ ‘Sto iniziando un film sulla mia vita, un film intervista. Tu avrai il ruolo del direttore della fotografia’.

Si è presentato?
Certo! Tutto contento mi presento, e trovo Fellini seduto dietro un ampio tavolo, leggeva il giornale; mi accomodo davanti a lui, e imperterrito continua la lettura, poi all’improvviso mi rivolge il verbo: ‘Hai portato i soldi?’ ‘Eh?’ ‘Hai portato i soldi?’. ‘Non capisco’. ‘Qui non c’è una lira…’.

Risultato?
Per quella parte ha poi ingaggiato il reale direttore della fotografia Tonino Delli Colli. E gratis. Ecco, questo negli Stati Uniti non sarebbe stato possibile, lì ognuno ricopre il proprio ruolo, con forme sindacali attente e stringenti.

Il suo ultimo film è “Marseille”, del 2016.
Dove interpreto un genitore senza memoria dopo un incidente d’auto: un meraviglioso mese di lavoro, senza faticare, tanto dovevo stare in un letto d’ospedale, immobile e in silenzio. Che meraviglia. E quanto è bella la Costa Azzurra.

La conosce bene?
Quando partivo con la Lambretta passavo sempre dalla Costa Azzurra, il paradiso terrestre. Un’estate a Cannes mi hanno assunto come bagnino per due mesi e mezzo.

Quante volte ha fatto avanti e indietro con la Lambretta.
Boh, sei o sette. Oramai per me era normale.

Le donne francesi?
Stupende. A quei tempi le italiane non si concedevano facilmente e non conoscevano la ceretta, mentre in Francia ho scoperto un altro mondo. Lì guidavano pure.

Era un gigolò?
Mai e poi mai. Non ero in grado. Eppure avrei potuto cambiare la mia vita da caffè a rhum, erano pazze di me (ci riflette). Non ci sono riuscito, eppure ho frequentato donne importanti, mogli di politici, vip, ereditiere… Impossibile. Al massimo mi hanno comprato dei quadri e ho rifiutato dei palazzi, una è arrivata a offrirmi un castello.

Ha rimpianti?
No, va bene così, altrimenti sarei già stato vecchio. E poi ho conosciuto la guerra, i bombardamenti, i morti a terra, i cavalli dilaniati e finiti al quarto piano di un palazzo. La ricerca della legna, qualunque tipo di legna, anche le gambe delle sedie, e solo per riscaldarsi. La fame, quella vera. Dopo tutto questo la vita la dovevo mangiare e la sto digerendo.

Twitter: @A_Ferrucci

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