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Scioperare a Pasqua? È giusto ribellarsi all’idea che siamo solo consumatori

16 Aprile 2017

Il tempo è lo pseudonimo della vita, scrive Antonio Gramsci dal carcere il 2 luglio 1933. Partiamo da qui per dire che anche i lavoratori hanno diritto a santificare le feste o a santificare il riposo: lavorare stanca. L’agitazione dei dipendenti dell’outlet di Serravalle Scrivia è stata ribattezzata la battaglia di Pasqua: in molti non hanno risposto alla chiamata dell’azienda, perché non ci stanno a fare la parte degli agnelli sacrificali e puntano il dito anche sulla diaria (Pasqua è pagata come una domenica qualunque). L’intenzione dell’outlet è quella di “agevolare le famiglie in visita al centro commerciale”. E le famiglie dei commessi, chi le agevola?

Ma non è solo Serravalle, il settore del commercio è in agitazione per le aperture selvagge. Oggi parliamo di Pasqua, domani saranno Natale e Santo Stefano, o Capodanno. I favorevoli osservano: dopotutto medici e infermieri fanno le guardie, i tassisti fanno i turni. Dov’è il problema? Trovare la falla è semplice: andare in ospedale può essere un’urgenza, comprarsi un paio di jeans francamente no. Non a caso i servizi pubblici si chiamano così. Il mondo, si dice, va in questa direzione: è tutto un grande drugstore, sempre accessibile, sempre disponibile. Tutti – cioè: i fortunati che un impiego ce l’hanno – lavorano tanto, con orari non standard tanto che esistono perfino gli asili nido H24: utile e comodo per alcune categorie (poliziotti, infermieri, etcc), ma dovrebbe essere lo Stato a venire incontro alle esigenze delle famiglie, garantendo ai bambini il tempo dell’intimità, della cura, della vicinanza. La “flessibilità” è il nuovo idolo, come globalizzazione e liberalizzazione. Ma dove ci hanno portato? A essere quasi solamente pedine nel meccanismo della produzione, se guardiamo la vicenda da un lato. O, se la guardiamo dall’altro, a esistere soltanto in quanto consumatori, individui che acquistano e devono poterlo fare sempre, perché più si allarga la possibilità di comprare, più si compra. Anche se in questi cinque anni – da che il professor Monti ha liberalizzato tutto il liberalizzabile anche in termini orari, terminando l’opera cominciata da Pier Luigi Bersani – i consumi non sono cresciuti, in compenso sono scesi i salari reali.

Il nocciolo della questione alla fine non è poi così complesso: il tempo, quanto vale? Si dice che è denaro. E in Minima moralia Theodor Adorno giustamente osserva che, se è così, sembra morale risparmiarlo, specialmente il proprio. E, aggiungeremmo, almeno spenderlo in qualcosa che valga la pena. Chi accetta che il piano del discorso sia quello del miglior funzionamento della macchina produttiva – o, peggio, dei diritti del consumatore nelle ore in cui non è un salariato sotto attacco – ha già perso: è l’essere umano il centro della faccenda, “il pieno sviluppo della persona umana” di cui parla l’articolo 3 della Costituzione promettendo che la Repubblica toglierà di mezzo “gli ostacoli di ordine economico e sociale” che lo impediscono. È roba che non si vende al centro commerciale, nemmeno la domenica di Pasqua.

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