Filippine, Leila e la sua sfida al lato oscuro della forza

25 Febbraio 2017

“Un onore finire in prigione per le mie battaglie”. Così ha dichiarato ai giornalisti mentre veniva arrestata fuori dal suo ufficio la senatrice filippina Leila de Lima, considerata il principale oppositore del presidente Rodrigo Duterte e della sua spietata politica antidroga. L’accusa è, ironicamente, quella di aver ricevuto soldi da trafficanti di droga quando era ministro della Giustizia.

Solo un pretesto, secondo i suoi sostenitori, che nasconde motivazioni politiche. “Non mi impediranno – ha aggiunto lei – di lottare per la verità contro la repressione del regime di Duterte”. È un fatto che, mentre il presidente filippino non tentenna – la sua guerra al narcotraffico ha fatto più di 7000 morti in meno di un anno e lo ha reso popolare in patria – la più forte critica del nuovo corso è stata proprio la senatrice de Lima. Per molto tempo, l’unica che abbia alzato la voce contro un presidente che ha ammesso di aver ucciso con le sue mani un trafficante di droga quando era sindaco a Davao. Mettendosi così, in nome della difesa della legalità e dei diritti umani, a capo di un’opposizione altrimenti desertificata.

Per tutti Leila è “The Figther”, la combattente. Rody – come familiarmente lo chiamano i filippini – è invece “The Punisher”, il giustiziere. Lo scorso dicembre il sito Foreign Policy l’aveva inserita nella lista dei global thinkers 2016 “per essersi opposta a un leader estremista”.

Nata nella cittadina di Iriga e cresciuta durante la dittatura di Marcos, Leila lavora per molti anni come avvocato a Manila, fino a essere chiamata nel 2008 dall’allora presidente, Gloria Arroyo, a guidare la Commissione nazionale per i Diritti umani. Risale a quella data il primo incontro-scontro con Duterte. Il rapporto di un inviato Onu che le arriva tra le mani documenta “l’epidemia” di giustizia sommaria praticata nella città di Davao da parte di un amministratore definito nel rapporto “autoritario e populista”. Il sindaco era proprio l’attuale presidente delle Filippine. La denuncia puntava il dito contro quegli stessi metodi sbrigativi che il Giustiziere avrebbe usato poi su scala nazionale. I suoi “squadroni della morte”, come senza mezzi termini li definisce la senatrice, avevano fatto oltre 1000 vittime, tra cui molti bambini . Il conflitto tra i due scoppiò allora, quando De Lima aprì una commissione d’inchiesta convocando testimoni per inchiodare Duterte. “L’ho castigato pubblicamente – racconta al settimanale americano Time – lui non ha reagito. Continuava a fissarmi. Ma non mi ha mai perdonato”. Il secondo round è otto anni dopo, la scena è quella ben più illuminata della politica nazionale.

Poco dopo le elezioni dello scorso maggio, De Lima è di nuovo alla guida di una Commissione sui crimini del presidente. Duterte reagisce stavolta: la accusa di essersi fatta corrompere dai signori della droga quando era ministro della Giustizia (per due anni tra il 2010 e il 2012 nel governo di Benigno Aquino III). “Vecchio narcisista”, “Donna immorale, impiccati!” è il pacato scambio di accuse tra vecchi nemici.

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