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Le parole sono importanti. Soprattutto se riferite a una donna ammazzata davanti a un ristorante nel quale aveva litigato con il suo assassino. E allora perché scrivere che Martina Scialdone “aveva lasciato” Costantino Bonaiuti, che costui era “dilaniato dalla gelosia”? Perché riportare addirittura il post di un collega che definisce l’ingegnere Enav “intelligente, simpatico, un gran figo”? Il femminicidio di Roma ha dell’incredibile, come incredibili sono le parole che i giornali hanno utilizzato per raccontarlo. Nonostante il Manifesto di Venezia per il rispetto e la parità di genere nell’informazione compia quest’anno 6 anni, dunque, la stampa italiana non si adeguerà mai a un linguaggio che rispetti le donne e non perpetui il fenomeno della vittimizzazione secondaria. Leggendo l’articolo di Elisabetta Ambrosi, che riporta fedelmente le frasi dei quotidiani, vengono i brividi.
Le parole sono importanti. Ce lo ribadisce anche Federica Crovella, che ha studiato una ricerca dell’Università Cattolica di Milano secondo la quale la comunicazione inclusiva fa bene alle aziende e migliora il benessere di chi ci lavora. Suddividendo un campione di mille persone in tre gruppi, la professoressa Claudia Manzi ha sperimentato come coloro che sono stati sottoposti a un’adeguata formazione circa il linguaggio da usare sul lavoro, siano più disponibili persino a un impegno civile extra professionale.
Con Valentina Mira torniamo invece a occuparci dell’Umbria, una regione che la Lega sta riportando al Medioevo. Non solo per la proposta di legge che definisce legittima la famiglia formata da uomo e donna uniti in matrimonio; prevede la presenza nei consultori di associazioni anti-abortiste; incentiva la contraccezione naturale e le gravidanze. No, adesso rischia di chiudere, a Terni, l’unica Casa regionale delle donne, che il Comune leghista vuole trasformare in residenza per anziani.
Se non s’inverte la rotta, il nostro Paese rischia di fare la fine degli Usa, dove possono abortire soltanto le donne ricche. A proposito di Stati Uniti, arriva da lì un’altra, proverbiale lezione di bell hooks. Nel suo “Da che parte stiamo”, la docente da poco scomparsa analizza la società imperniata sul capitalismo borghese, che reputa normale la fame di denaro e altrettanto normale che tutti debbano aspirare a essa. E così i poveri vengono rappresentati come falliti, incapaci, parassiti. Quasi “occupabili”, diremmo con una battuta. Ce ne parla Cristina Quintavalla.
Michela Iaccarino recupera, invece, la storia delle Agoje, guerriere africane del regno che ha dominato il territorio dell’attuale Benin dal 1600 alla fine dell’800. Una saga resa mitologica da Hollywood con il film “The woman king”, nel quale le combattenti appaiono determinate a sconfiggere il patriarcato. La verità, purtroppo, è tutt’altra. Basta dire che le Agoje lavorarono al soldo degli schiavisti.
Per la pagina letteraria, infine, arriva in Italia l’autobiografia di una donna incredibile: Eve Babitz. Scrittrice, giornalista, amante di personaggi del calibro di Cary Grant e Jim Morrison, ha fatto della Los Angeles degli anni d’oro il suo salotto, con una sfrontatezza che solo le persone realmente libere possono avere. Ce la racconta Angelo Molica Franco.
Buona lettura.
A cura di Silvia D’Onghia
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