Lungo l’arco della sua lunghissima storia, Ravenna ha subito gravi inondazioni. E, tra la notte del 27 e il 28 maggio 1636, una delle più rovinose. Le acque dei fiumi Ronco e Montone invasero la città per oltre due metri a causa di vari collassi arginali, dopo sei giorni di pioggia continua. A mezzanotte il Montone, che lambiva le mura della città a nord-ovest, era esondato e, unendo le acque a quelle del Ronco, aveva sfondato le mura, invadendo le strade. I livelli idrici arrivarono al secondo piano delle case e gli abitanti si salvarono in barca.

Qualcuno accusò i possidenti terrieri che avevano bloccato la decisione di aprire gli argini a monte per inondare le campagne e salvare la città, ma senza risultati. E fu allora che il governo pontificio elaborò un piano di interventi idraulici a difesa della città, con la diversione delle acque di Ronco e Montone lontano dalle mura e la costruzione di un nuovo canale di collegamento a mare. Invero, la catastrofe del 1636 non era del tutto indipendente dalla grande bonifica progettata da Giovan Battista Aleotti detto l’Argenta per i suoi natali, su incarico di Alfonso II d’Este, duca di Ferrara, Modena e Reggio.

Sul territorio compreso tra Bologna, Ferrara e Ravenna si legge un manuale storico d’ingegneria idraulica. Come scrive Don Norman nel bellissimo saggio che sto leggendo, “tutto ciò che vedo dalla finestra è artificiale, disegnato”. E qui si tratta di un disegno idraulico complesso e articolato del territorio che, invero, fa parte della più vasta pianura padano-romagnola. Una terra frutto delle alluvioni millenarie provocate dai fiumi alpini e appenninici attraverso la loro erratica traiettoria. In alta pianura, la lieve pendenza garantisce la massima libertà a fiumi e i torrenti di scavarsi il proprio alveo, senza bisogno di troppi interventi per regolarne il deflusso. Nella media e bassa pianura, dove la pendenza è assai modesta, i fiumi tendono a colmare il letto con i propri sedimenti, prodotti copiosamente dalle rocce e dai suoli montani e collinari, assai friabili. In tal modo, i corsi d’acqua si sono progressivamente elevati sul piano della campagna, in virtù del fenomeno fisico che regola la deposizione differenziata dei sedimenti sfruttando i periodici spagliamenti (v. Videoclip). Il paesaggio naturale sarebbe perciò disegnato da fiumi e rivi minori naturalmente pensili, con argini ben formati ma non proprio sicuri per chi aveva deciso di vivere lì sotto.

Dall’antichità, lungo il Medioevo e fino all’età moderna, gli uomini hanno consolidato gli argini naturali e ne hanno costruito di artificiali per contenere la furia dei torrenti. E continuano a farlo. In passato, dopo una rotta, spesso non era possibile ripristinare l’assetto pre esistente, poiché il fiume si era scavato un nuovo alveo, che doveva a sua volta essere arginato. Dalla rotta di Ficarolo del 1152 (v. Figura 1) in poi, l’area della bassa padana e romagnola si confronta con una condizione di instabilità cronica, a partire dalla zona a ridosso del Po di Primaro (o Po d’Argenta), ramo meridionale del Po che fungeva da collettore principale dei fiumi appenninici (v. Figura 2). Questo ramo, ormai secondario, era letteralmente circondato da aree paludose e acquitrini collegate da riazzi torrentizi, che oltre a “valli” prendevano a volte il nome anche di “lame”, come racconta uno straordinario studio storico pubblicato qualche anno fa [Menzani, T. (2010) La bonifica fra cultura economica e ambientale. Il caso delle valli emiliano-romagnole (secc. XVII-XVIII), Storicamente, 6(29)]. E che, riletto oggi, apre una finestra sull’eterna vicenda, idraulica e sociale, tracciata dal rapporto tra uomini e fiumi in questa terra.

La straordinaria bonifica seicentesca dell’Aleotti (v. Figura 3) disegnò un paesaggio del tutto diverso, aprendo nuove prospettive economiche e sociali con la trasformazione delle paludi in terre coltivabili. Era un’opera avanzata e avveniristica, ma si rivelò fallimentare a medio e lungo termine, anche perché largamente inattuata. Quasi due secoli dopo, il territorio fu rivoluzionato dalla bonifica del milanese Giovanni Antonio Lecchi, incaricato da papa Clemente XIII di mettere fine alla secolare controversia sull’assetto idraulico delle province di Bologna, Ferrara e Ravenna. La soluzione fu quella di separare le acque alte da quelle basse e di scolare queste ultime in Adriatico attraverso un collettore unico (v. Figura 4). Era un rimedio affatto originale, che obbediva allo scopo di “asciugare le valli”, eliminando in maniera radicale e definitiva l’acquitrino. Una sorta di “soluzione finale” che spesso viene invocata in tema di rischio idrogeologico.

Con le successive riflessioni e le progressive integrazioni, la lezione del Lecchi ha dettato la via da seguire nei due secoli successivi. Sempre alla ricerca della soluzione finale. Una soluzione che non sempre esiste nel mondo reale. Quasi mai nel reame dell’idrologia e dell’idraulica fluviale. Alla luce della catastrofe del 2023, questa breve riflessione sul passato suggerisce quattro considerazioni.

1. Le soluzioni nature-based, quelle cosiddette “verdi” che peraltro prediligo, non hanno grande significato in un contesto vallivo come questo, se non per il miglioramento dei drenaggi urbani e la conservazione dei suoli montani e collinari.

2. In questo contesto, le misure di flood proofing, permanente o temporaneo, sono essenziali per ridurre la vulnerabilità e costruire la resilienza [Bignami, D.F., Rosso, R. & U. Sanfilippo (2019) Flood Proofing in Urban Areas, Heidelberg: Springer].

3. Conservare la memoria storica, di norma confinata nell’oblio, aiuta a convivere con il rischio idrogeologico sotto tutti i profili: economico, sociale, scientifico e tecnico [Spaccatini, F., Pancani, L., Richetin, J., Riva, P. & S. Sacchi (2021) Individual cognitive style affects flood-risk perception and mitigation intentions, J Appl Soc Psychol, 51].

4. Le misure di mitigazione devono superare l’orizzonte locale per non trasferire quote di rischio, innescando o cronicizzando le controversie.

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