Una delle prime frasi che mi è stata rivolta, già quando i miei figli erano ancora piccolissimi, pronunciata (soprattutto) da madri più vecchie o avanti nel processo di crescita era: “bambini piccoli, problemi piccoli. Bambini grandi, problemi grandi”. Accostato alla profezia troneggiava un ghigno crepuscolare, di sottile compassione, per noi genitori ancora ignari del nostro futuro.

Ora che di adolescenti in casa ce ne sono due la litania è leggermente mutata, poiché la tempesta infuria adesso, e l’aforisma – fattosi scarno sintagma – riflette un’inevitabile sorte: “ah, teenagers”. Una scrollata sconsolata del capo finisce a gesti il resto della frase.
In entrambi i casi aleggia la sensazione di un destino che non si può osteggiare, ma solamente accettare.

Certo: quando mangiano, dormono, piangono e fanno poco più i problemi gestionali a livello intellettuale, spirituale o emotivo sono ridotti al minimo.

Poi un giorno ti svegli, ti alzi dal letto, ti guardi allo specchio e per qualche frammento di secondo ti rendi conto che gli anni te li sei fumati in poche boccate. Ma la sberla in piena faccia ti arriva quando a scansarti da quel bagno è qualcuno alto quanto te, con la tua taglia di reggiseno, che ha i tuoi stessi capelli ma brufoli che tu non hai, e con fare spiccio ti chiede di passarle uno dei tuo assorbenti. È solo a quel punto, davanti a una realtà che hai avuto davanti agli occhi per tanto tempo senza volerla afferrare, che ti poni l’inevitabile domanda: “com’è possibile che sia passato così in fretta?”.

Molti genitori, oltre a vivere l’adolescenza dei propri figli come un passaggio forzato, una strettoia dalla quale si uscirà solo ammaccati, la percepiscono come una contrapposizione delle forze in gioco. Noi contro loro. Il torto contro la ragione. Il passato contro il futuro. Che messa così, non occorre essere Jung per capire che la partita non potrà mai finire in pareggio.

Credo che alla base ci sia il grande disagio di noi genitori che origina da due direzioni opposte.

Da un lato non ci sembra così remoto il ricordo di noi chiusi nella nostra camera, ad ascoltare rock ad alto volume su delle cassette riciclate, stravaccati con l’identica indolente pigrizia che avvolge ora i nostri figli, mentre i nostri genitori – quegli ottusi matusa (che per inciso, erano ben più giovani di me adesso) – ci rimbrottavano su tutti i doveri che il mondo pretendeva da noi.

Dall’altro lato si fa a pugni, senza comprenderlo appieno, contro l’immagine di quei genitori di cui inconsapevolmente abbiamo assunto i tratti, – vuoi per emulazione inconscia -, e che ora riproponiamo sui nostri figli dall’altra parte della barricata.
Siamo una sorta di doppelgänger dei nostri genitori, in lotta contro un’altra entità sfalsata: l’adolescente che siamo stati dentro il corpo dei nostri figli.

La vera sciagura è che di quei ragazzi ricordiamo solo gli aspetti edulcorati dalla memoria, e ci aggrappiamo a diapositive di imprese e avventure di discutibile veridicità, tramandate ai nostri giorni attraverso logorroici e debordanti racconti, fatti con i pochi protagonisti ancora in circolazione. La storia risulta così ancora vivida, nonostante siano passati decenni, e al nostro confronto gli adolescenti che ci gironzolano per casa non sono altro che la nostra replica sbiadita.

Posta in questi termini, la convivenza tra genitori e adolescenti non potrà che essere conflitto, perché a confrontarsi sono due entità non paragonabili, esattamente come quando i nostri genitori, o addirittura i nostri nonni, comparavano il loro vissuto al nostro.
Da questa battaglia ne resterà soltanto uno. Loro.
È la storia che lo insegna. Anche noi abbiamo vinto, a nostra maniera, contro i nostri genitori. Gli siamo sopravvissuti, ci siamo trasformati in un manufatto a sé stante. Siamo diventati quello che siamo grazie e per colpa loro, distinti in ogni caso.

Ho ancora un figlio che pensa solo a mangiare, arrampicarsi, guardare i cartoni. Non piange quasi più. Le tabelline le studia da solo e i vestiti, quelle poche volte in cui decide di cambiarli, se li mette da solo. Con lui i drammi, le sfide, le schermaglie sono ancora all’orizzonte.
Tuttavia non mi spiace dover affrontare lo spauracchio dell’adolescenza con le mie figlie più grandi, mettermi in gioco, trovarmi spogliata della mia incontrovertibile autorità, essere giudicata o persino condannata. Però è vero che non mi piace il tempo che passa, vedermi nel ruolo che nella mia testa era dei miei genitori, quell’immagine mi restituisce il conto degli anni che sono volati.

Adoro vedere i miei ragazzi diventare adulti, perché in fondo anch’io sto evolvendo con loro. Crescono loro, cresciamo noi insieme. Perché i figli, proprio perché frutto di un’epoca che non ci vuole e in cui non possiamo più entrare, hanno cose da dare e da raccontare. Persino da insegnare a noi, matusa a nostra insaputa.

E poi questa, è una storia da un finale ancora aperto.

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