FATTO FOOTBALL CLUB – Con quel look da tamarro Anni Novanta, il mate sorseggiato prima della gara e le interviste post partita in spagnolo, Mateo Retegui – nuovo bomber dell’Italia per necessità e parentela di secondo grado – più che ai fasti della nazionale azzurra ci riporta alle vecchie telenovela sudamericane. L’attaccante argentino – perché di questo si tratta – non è la panacea di tutti mali, anzi. È la pietra tombale sul calcio italiano, di cui certifica lo stato comatoso con la sua sola presenza in nazionale. Ed è uno sfregio a tutti quei ragazzi, italiani per davvero, che non possono vestire la maglia azzurra per colpa di una legge medievale.

Chiariamo subito: il diretto interessato non c’entra nulla. Presentato come novello Batistuta, in realtà molto più simile alla brutta copia di German Denis, per la stampa Retegui è già il centravanti che Mancini cercava dopo i due gol all’esordio, anche se il secondo segnato ai dilettanti di Malta, e il primo contro l’Inghilterra al termine di una prestazione insufficiente. Due partite, una poco più che amichevole, sono davvero troppo poco per qualsiasi giudizio, in un senso o nell’altro. Ma non è questo il punto.

Mancini è chiaramente disperato: dopo aver passato al setaccio tutti i possibili campionati giovanili e stranieri alla ricerca di uno straccio di talento , ha esaurito il bacino dei giocatori italiani ed ora è passato agli italianizzabili. Retegui non è nemmeno l’unico della lista, in Under 21 è stato già chiamato anche Bruno Zapelli, centrocampista del Belgrano. Dal punto di vista tecnico, possiamo pure capirlo: il movimento è ai minimi storici dopo la seconda qualificazione di fila mancata ai Mondiali, ha buchi enormi in ruoli cruciali e per colmarli bisogna tentarle tutte. Del resto nel calcio e nella società globalizzata di oggi, a livello internazionale è sempre più accesa la corsa fra Federazioni a convincere i migliori giovani dotati di doppia cittadinanza. Guardate l’Argentina, che ha già convocato il 17enne Valentin Carboni, figlio di Ezequiel, in forza all’Inter primavera, nel timore di vederselo scippare proprio dall’Italia. Ci sono nazionali come il Marocco fresco semifinalista mondiale che hanno costruito la loro fortuna su questo. Magari potrà valere anche per l’Italia, con la differenza che noi non siamo un Paese ad alta emigrazione, non abbiamo ragazzi da riportare a casa per preservare le nostre origini e il nostro calcio: quando facciamo scouting stiamo per lo più raccattando scarti di nazionali altrui senza un autentico legame col nostro Paese. Sul fatto che Mancini faccia bene o meno a puntare sugli oriundi, ognuno può pensarla come vuole. Quel che è certo, però, che se Retegui gioca in nazionale dovrebbero poterlo fare tutti i ragazzi che italiani lo sono per davvero.

Di ius soli in Italia si parla ciclicamente, poi ce ne dimentichiamo. Siamo fermi alla legge che impedisce ai figli di immigrati di rappresentare il Paese in cui sono nati e cresciuti fino alla maggiore età. Lo sport è migliore della politica e infatti è un passo avanti, in diverse discipline questi ragazzi vengono considerati in tutti e per tutto come italiani ai fini del tesseramento (il cosiddetto “ius soli” sportivo), ma poi quando si tratta di nazionale non si può fare nulla perché manca la cittadinanza. In passato, il caso più famoso è stato quello di Mario Balotelli. Oggi Wisdom Amey, difensore del Bologna, più giovane esordiente della storia in Serie A, si ritrova nella stessa condizione, tanto che nell’ultima finestra è stato chiamato dal Togo, convocazione a cui non ha per il momento risposto. E come lui ce ne sono e ce ne saranno tanti altri, sempre di più.

Che sarà mai aspettare qualche anno, si dirà. Non è così. Innanzitutto, perché negli anni dell’adolescenza viene meno tutta la trafila nelle rappresentative giovanili, fondamentale nel percorso di crescita di un giovane calciatore, che spesso riceve la convocazione del Paese d’origine dei genitori, con cui può sviluppare un legame e allontanarsi dalla maglia azzurra. Ma non è solo una questione calcistica, dal punto di vista tecnico non farebbe la differenza (parliamo di pochi casi, forse in prospettiva futura l’impatto sarà maggiore). È proprio una questione di principio, che come tale infatti si carica di ideologie, conflittualità politica, ben al di là del pallone. E forse proprio il calcio nella sua semplicità può aiutarci a trovare la risposta. Se la nazionale è innanzitutto identità, voi da chi vi sentireste più rappresentati: da un ragazzo nato e cresciuto in Italia, o da un argentino con un nonno di Canicattì?

Twitter: @lVendemiale

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