La vittoria della destra ha contribuito a rinnovare interesse per alcune questioni simboliche della politica che sono state sempre guardate con sospetto se non con orrore dalla sinistra: patria, nazione, identità e perfino amore (e il suo corrispettivo speculare, l’odio) e, in queste ore di discussione sull’omogenitorialità, ‘natura’.

Su questo terreno, tuttavia, a sinistra taluni ritengono che tali concetti siano declinabili in un’accezione progressista e non retriva, proprio mentre il sindaco di Bologna cancella i ‘patrioti’ dalla toponomastica a favore della sola definizione di ‘partigiani’. Carlo Galli ha scritto che senza nazione non c’è buona politica, mentre il titolista di Repubblica gli fa dire che la nazione e i progressisti devono imparare addirittura ad amarla.

Su questi temi ci è utile la lettura del recente libro di Geminello Preterossi Teologia politica e diritto (Laterza) che si concentra tra le altre cose su un altro concetto mobilitante e affine: il popolo. Quel che intanto apprendiamo da questo testo è proprio che anche il campo progressista produce mitologie e smuove passioni. Preterossi ricorda che “la creazione del legame collettivo non può essere il risultato di una (presunta) trasparenza razionale”. In altri termini, diremmo noi, quel che accomuna le posizioni di sinistra e di destra oggi è la necessaria produzione di un immaginario che funga da collante e che non può essere liquidato. Ce lo suggeriscono gli studiosi del populismo inteso nel suo senso teoretico alto, scevro dal birignao mainstream che usa la nozione come una clava per colpire gli avversari e non si avvede del populismo delle élite fondato sulla mistica della competenza.

Che il popolo non esista è per Preterossi un’affermazione banale: il popolo “esiste come costrutto simbolico che svolge un’inaggirabile funzione di legittimazione”. E questo è – sostiene ancora l’autore – non solo un dato ineliminabile di ogni tentativo di costruzione egemonica, ma è anche insano volerne fare a meno sulla base di un’idea illuministica di separazione della ragione dalla non-ragione. La mobilitazione delle primarie, dunque, si potrebbe sostenere sulla scorta di questo ragionamento: costruisce un popolo e lo stringe attorno alla sua leader. Insomma, secondo Preterossi non si fa politica senza suscitare passioni e sulla base di una fredda filosofia che non sia ammantata anche un po’ di trascendenza o addirittura di ‘religione’ perché la prima fa più fatica della seconda a farsi politica per i vincoli razionali a cui è sottoposta.

Da qui la risposta alla domanda: è possibile rinunciare a una qualche forma di trascendenza politica? Per Preterossi non solo non è possibile, ma dal momento che la teologia politica innerva la modernità, come dimostrerebbero i tentativi di liberarsene che finiscono comunque con la costruzione di altre ‘religioni’: il capitalismo, o i diritti umani, o la tecnica. Ma non è nemmeno auspicabile. Tuttavia, quel che non convince – che dei libri degli amici si può parlare solo in dissenso – è l’idea che se la credenza nei miti moderni (progresso, diritti, democrazia) è una forma para-religiosa, allora sia meglio rivolgersi (acheronta movebo) a una dimensione simbolico-religiosa più autentica (in cui il leaderismo è centrale tanto quanto il presunto ‘popolo’) perché ‘tiene di più’.

Se infatti i miti ‘laici’ sono più deboli e richiedono maggiore impegno e più ’razionalità’ è il prezzo da pagare per non diventare preda delle passioni tristi. Anche per un paio di ragioni strategiche: la prima, che la destra, quelle passioni, le mobilita con più energia della sinistra. Vuoi perché la sinistra è ancora fedele ai constraints logico-argomentativi che Preterossi pure denuncia. Vuoi anche perché la mobilitazione delle passioni richiede un’‘aggressività’ che la sinistra ha perso rifugiandosi nella mitezza delle posizioni e nei distinguo del ragionamento; la seconda, che oggi suscitare le passioni politiche è il compito degli stregoni della mediatizzazione e del marketing politico, e le masse, da protagoniste rischiano di diventare pedine da muovere sullo scacchiere di una politica decisa altrove.

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