Nella Macondo di Garcia Marquez c’erano tante cose, non il pallone. Se ci fosse stato, però, non v’è dubbio che l’avrebbe portato Melquìades, lo zingaro che dalla fotografia alla macchina del ghiaccio portava il progresso nel villaggio. E lo avrebbe portato, probabilmente, attraverso il sinistro di Dirceu José Guimaraes, anche lui “zingaro” e portatore di meraviglie al di fuori del tempo e dello spazio come Melquìades. Nasce a Curitiba nel 1952 in una famiglia umile ma unita e onesta, è un bimbo riccioluto e vivace e appena scopre l’effetto che dà l’unione tra un pallone e il suo piedino sinistro ne diventa ebbro e del pallone non se ne separa più, incoraggiato dal papà e passando sopra la ritrosia della mamma che di fronte a vetri e oggetti rotti non ha la stessa pazienza del coniuge.

D’altronde il ragazzo è forte, e se la mamma non è troppo contenta di finestre e scarpe rotte allora pure il papà qualche sacrificio deve farlo: non si fuma, né si toccano alcolici per risparmiare e per portare Dirceu a provini e partite delle giovanili. Sacrifici ripagati perché a 13 anni il Coritiba lo prende. A 16 esordisce già in prima squadra per via di un sinistro che è una meraviglia, della capacità di far giocare bene tutta la squadra, forse figlia anche di una mente matematica che lo porta ragazzino ad eccellere nelle materie scientifiche a scuola, e anche di uno spirito di sacrificio all’epoca non consono ai calciatori più dotati tecnicamente. Corre, segna, fa segnare e porta il Coritiba a vincere due campionati Paranaensi di seguito, nonostante come racconti lui stesso non venga praticamente mai pagato: “Mi importava poco, a me interessava giocare”.

E’ doveroso però capitalizzare quelle doti, e allora nel 1971 passa al Botafogo dove incontra quello che definirà il suo maestro assoluto: il grande Jairzinho. E a ventidue anni arrivano anche le prime chiamate della nazionale verdeoro, che lo portano nel 1974 a giocare il suo primo mondiale in Germania, dove i campioni in carica escono contro l’Olanda di Cruijff. In quel caso sono gli olandesi i Melquìades del caso: il Brasile porta la vecchia idea tutta classe e fuoriclasse del ’70, l’Olanda gli spiega che è antiquariato, che bisogna correre e pressare. Dirceu esce dal campo piangendo per quell’esperienza. In Brasile dopo quattro anni al Botafogo passa prima alla Fluminense, in una squadra spettacolare che vede accanto a Dirceu campioni come Carlos Alberto e Rivelino che vincerà il titolo Carioca e poi al Vasco Da Gama, anche qui vincendo il titolo.

Una stagione che coincide col suo secondo e miglior mondiale: in Argentina è titolare fisso, segna due gol contro il Perù nel secondo turno e nonostante tutto dica che quel Brasile sia da finale i peruviani perdono incredibilmente 6 a 0 contro l’Argentina e i verdeoro devono accontentarsi della finale per il terzo e quarto posto contro l’Italia finita per 2 a 1 per il Brasile, con Dirceu che segnerà un grandissimo gol con un mezzo esterno destro dal limite destro dell’area di rigore. Volerà in Messico all’America e poi in Spagna all’Atletico Madrid di Vicente Calderon: giocherà benissimo coi Colchoneros, ma senza vincere nulla. Partecipa al Mondiale del 1982, scendendo in campo tuttavia solo una volta contro l’Unione Sovietica. E per un calciatore ormai 30 enne suonano le sirene del calcio italiano: lo vorrebbe la Roma per farlo giocare accanto a Falcao ma non c’è accordo sul contratto, e col tempo che stringe l’unica possibilità è accasarsi in una neopromossa, l’ambizioso Verona di Bagnoli. Il burbero tecnico gialloblù all’inizio dice che non lo vuole, che ha già Guidolin, ma poi ne fa un perno della squadra.

Dirceu si presenta con un gol al Como in Coppa Italia, poi è parte integrante di quella incredibile compagine neopromossa in A e che alla fine del girone d’andata è seconda ad un punto dalla Roma. Per il brasiliano saranno due i gol in campionato: uno contro il Catanzaro e l’altro esattamente trent’anni fa contro il Cagliari, una punizione stupenda che porta in vantaggio il Verona in una gara ribaltata poi dai sardi, che farà dire addio ai sogni scudetto, solo rimandati, della truppa di Bagnoli. A 31anni Dirceu passa al Napoli: a Capodichino lo accolgono in ventimila, e lui risponderà con grandi prestazioni e sei gol, seppur in una stagione difficile per gli azzurri. Dura solo un anno però: quella dell’84 sarà l’estate di Maradona per il Napoli, con l’argentino che porrà il veto su Dirceu e si prenderà anche la casa dove viveva.

Poco male: in cambio di una ricca buonuscita il brasiliano può trasferirsi e sceglie l’Ascoli. Anche qui diverte e si diverte, ma nonostante cinque gol e bellissime partite la squadra retrocede in B e Dirceu allora passa al Como, con i lariani che arrivano al nono posto e soprattutto in semifinale di Coppa Italia eliminando la Juve. Ma in Italia non dura mai più di una stagione nello stesso posto per Dirceu, e allora da Como torna in Campania, ad Avellino, dove pur avendo ormai 34 anni gioca la sua migliore stagione. Segna una doppietta all’esordio contro la Fiorentina, regalando la vittoria ai Lupi, mette la firma con una prestazione sontuosa sulla vittoria contro il Milan di Liedholm e porta gli irpini di Vinicio a un passo dalla qualificazione in Europa.

Ha 35 anni: troppi per un’epoca in cui gli allenamenti erano corsa e gradoni e basta, ma a lui non importa, vuole divertirsi e perciò torna prima in Brasile col Vasco Da Gama e poi va in America a Miami, prima di tornare in Italia ancora una volta nelle vesti di Melquìades.
Già, perché Dirceu si accorda con l’Ebolitana: portando meraviglie a Macondo in pratica. Gioca due stagioni e mezzo, deliziando un pubblico e una città che gli dedicheranno stadio e palazzetto dello sport, in campionati dove anche gli avversari si beavano nel guardare quel calciatore intelligente, fortissimo e spettacolare e soprattutto che non se la tirava mai.

Passerà al Benevento, poi però la voglia di partecipare al Carnevale sarà più forte e tornerà in Brasile nel 1992. Smetterà davvero nel 1995, a quarantatré anni: pochi mesi dopo a Rio de Janeiro, tentando di evitare un’auto impegnata in una corsa clandestina, uscirà fuori strada con la sua utilitaria, morendo assieme all’ex compagno di squadra dei tempi dell’Ebolitana Pasquale Sazio. Ma il calcio italiano anni ’80, specie in provincia, in fin dei conti è un po’ come la Macondo di Marquez: colorato, a volte improbabile ma bellissimo…e fuori dalle regole del tempo, come Melquìades.

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