C’è chi giura di essere sconvolto, chi maledice Napoli e punta il solito infallibile dito accusatore, c’è chi indignato rilancia la promessa, già manifestata in altre circostanze, di scappare via; c’è chi turbato dall’ennesimo terribile fatto di cronaca nera – non parla momentaneamente del Napoli; c’è anche chi non è a conoscenza proprio della notizia della nuova vittima casuale o come in modo sbagliato tutti la definiscono innocente, insomma, come se ci fosse un lasciapassare silente per quelle, invece, colpevoli.

Ma c’è chi pur conoscendola reagisce con indifferenza, distacco e allargando le braccia sbotta: “Viviamo a Napoli, può accadere!”. Al coro di ‘voci bianche’ si uniscono immancabili come l’influenza stagionale (non c’è un vaccino) per ragioni di visibilità e per dare un senso alla loro vita anche se la loro vita un senso non ce l’ha, quelli che – compreso l’estensore di questo articolo – si sentono legittimati a partecipare alla solita colorata ammuina di parole stanche e vuote. È la generalizzata liturgia di stampo pavloviano del dopo, è la tragedia greca immersa nel ragù, è la sceneggiata per espiare il senso di colpa collettivo e sentirsi falsamente di nuovo degni cittadini.

Alla fine Francesco Pio Maimone, appena 18 anni, una vita in salita, sacrifici e ancora sacrifici, il sogno di aprirsi con la sorella una piccola pizzeria, la fatica da formichina instancabile di mettere i soldi da parte facendo il suo mestiere e contemporaneamente tanti altri lavoretti in nero (muratore, rider) per un caso, per un destino baro, per una fatalità (così le chiamano) si è trovato sulla traiettoria di una pallottola esplosa dalla pistola di un suo quasi coetaneo – con lo stesso nome di battesimo ma con scelte di vita diverse – che ha scatenato l’inferno perché qualcuno accidentalmente ha osato sporcagli le sneakers bianche. Un solo colpo – tra la folla di persone – si è conficcato a pochi millimetri dal cuore di Francesco Pio. Un bruciore, un piccolo dolore, un fiotto di sangue e poi “Non respiro, non respiro più”, quasi un sussurro al suo amico Carlo che lo sorreggeva nei pressi del chioschetto ‘Da Sasà’ di fronte ai più blasonati chalet di Mergellina sul Lungomare Caracciolo, la scorsa domenica notte.

A Napoli si muore e neppure te ne accorgi. Da queste parti, la vita vale davvero poco. Città sanguinolenta dei morti ammazzati, delle faide, delle vendette trasversali e delle vittime casuali come Francesco Pio Maimone, Pasquale Romano, Luigi Galletta, Antonio Landieri, Annalisa Durante, Claudio Taglialatela, Maikol Giuseppe Russo, Fabio De Pandi, Silvia Ruotolo e tanti altri. L’elenco è lungo: oltre 300. La stessa vittima Francesco Pio sapeva che a Napoli si può morire così, all’improvviso. Abitava a Pianura, un quartiere dormitorio dove campeggia un murale dedicato a Luigi Sequino e Paolo Castaldi, due amici erroneamente scambiati la sera del 10 agosto di 23 anni fa per esponenti di un clan avverso e massacrati da una pioggia di piombo che non gli lasciò scampo. E come per Gigi e Paolo, anche per Francesco Pio ci sono state iniziali titubanze: del resto non è scontata l’innocenza di chi vive in periferia e subisce una sparatoria come se fosse una esecuzione della camorra. La deve dimostrare mentre rantola e muore. Non è pregiudizio ma diffidenza. Come se a prescindere che morire a 18 anni non sia già un fatto abnorme. Accade e basta. Sembra maledizione, non lo è.

A sparare – sostengono gli investigatori – sembra che sia stato Francesco Pio Valda, 20 anni e come la sua vittima residente in un’altra periferia dimenticata, in un altro quartiere dolente dove ti sposti per andare al Centro storico oppure al Lungomare e d’istinto dici: ‘Vado a Napoli’. Quei muri invisibili ma reali continuano a dividere Napoli in tante città dalle tante umanità. Vite parallele, quelle dei due Francesco Pio. La vittima cercava di realizzare il suo sogno e aveva una certezza granitica: ‘Non vado via da mamma Napoli’. È la meglio gioventù che vive simbioticamente con la città, s’incanta a guardare il Vesuvio, il mare e la capolista se ne va. Poi c’è lui, il carnefice, l’altro Francesco Pio. Il maledetto. Orfano a 10 anni e con una vita già scritta per cognome: il suo papà Ciro Valda, ras scissionista dell’alleanza dei clan Aprea-Cuccaro-Andolfi di Barra, il 23 gennaio del 2013, attirato in trappola, viene ammazzato nei pressi della sua abitazione con 25 colpi d’arma da fuoco. Addirittura – sostiene la Procura di Napoli e la Squadra mobile – dopo aver esploso tre colpi e ucciso l’altro Francesco Pio, ha dato inizio a una sorta di messa in scena. Ha fatto finta di scappare, poi è tornato sui suoi passi, fino a mimetizzarsi tra la folla di soccorritori, recitando una parte orrenda: fingendo di prestare soccorso alla sua vittima. Particolari, dettagli che se fossero confermati ti raccontano di un 20enne freddo, distaccato, con una radicata e pervasiva ideologia criminale, e il cui unico pensiero di fronte all’orrore sarebbe stato quello di costruirsi pezze d’appoggio per alleggerire in prospettiva le sue responsabilità in un eventuale processo.

Sembra strano, ma Francesco Pio Valda il grilletto, domenica notte, non l’ha premuto da solo. Mi chiedo: qualcuno, in questi lunghi dieci anni, ha bussato alla porta della famiglia del piccolo Francesco Pio Valda, orfano di padre ammazzato dal clan? C’è stato un tentativo serio di aiutare questo nucleo familiare? L’altra Napoli, quella borghese e con la puzza sotto al naso, cosa fa per quella più afflitta e dimenticata? Con onestà, diciamolo: niente. Davvero di fronte a questa immane e non unica tragedia possiamo solo invocare: è emergenza criminalità, ci date più poliziotti?

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