C’erano più giornalisti che manifestanti. Probabilmente, c’erano più camionette della polizia che manifestanti. È stata un flop la manifestazione organizzata dal New York Young Republican Club per protestare contro il possibile, presunto arresto di Donald Trump. New York è la città di Trump ma non ama Trump. La memoria del 6 gennaio ha fatto il resto. Molti, temendo nuove violenze, se ne sono rimasti a casa. Che nei giardini davanti alla Manhattan Criminal Court ci fosse solo una trentina di persone – un campione piuttosto pittoresco del popolo repubblicano – non significa però molto. L’ultima storia giudiziaria di Donald Trump spacca l’America e rappresenta l’ennesimo limite, l’ennesimo tabù che Trump infrange. Mai, nella storia americana, un presidente o un ex presidente hanno subito l’umiliazione del carcere.

Sul sit-in è stato mantenuto sino alla fine un riserbo quasi assoluto. Si sapeva solo che sarebbe iniziato alle sei di sera, in un luogo imprecisato del Lower Manhattan. Poi appunto l’annuncio del ritrovo, davanti al tribunale dove Trump verrà condotto in caso di arresto. Probabile che gli organizzatori temessero l’arrivo di gruppi di opposta fede politica, con il rischio di qualche spintone di troppo. “Oggi abbiamo dimostrato che i conservatori possono e devono protestare pacificamente”, ha sentenziato Gavin Mario Vax, presidente del club dei giovani repubblicani. Accanto a lui Kevin Smith, repubblicano che con la pace non c’entra molto. Il 6 gennaio 2021 era sulle barricate davanti al Congresso. Mantenere la pace non è stato comunque difficile. Di “giovani repubblicani”, alla manifestazione, nemmeno l’ombra (o quasi). Alla fine, a conquistare la scena è stato un manipolo di personaggi calati da chissà dove, con le facce dipinte, i cappellini MAGA e i costumi esagerati, rincorsi dalle troupe in estasi davanti al “pittoresco trumpiano”, pronti a ripetere l’armamentario retorico che ha segnato trionfi e cadute del loro leader.

Trump è l’unico argine al comunismo”, spiegava un signore sulla sessantina, stretto in un giubbotto che sul retro riportava l’effige sorridente e i capelli arancione intenso di Trump. Un uomo travestito da asino, simbolo dei democratici, lamentava che i progressisti hanno venduto l’America ai banchieri, “soprattutto a Soros, il peggiore”. Un ragazzo minuto, in camicia elegante – forse l’unico “giovane repubblicano” in circolazione – allargava a dismisura il torace per mostrare la sua bandiera e ripeteva: “Trump ci salverà dalla cultura di genere e razza che vuole cancellare i veri americani”. Un altro non giovanissimo diceva di essere stato a Washington il 6 gennaio e di portare le ferite di quel giorno come una medaglia. Alla domanda, “È entrato al Congresso?”, rispondeva “no, il Congresso non l’ho visto, stavo a qualche chilometro di distanza”. Ovunque echeggiava l’argomento che più tiene banco: quello delle elezioni rubate, riproposto in un carosello di toni e lamenti. “Ha vinto Trump”. “I brogli sono chiari”. “Le macchine elettorali erano truccate”. Una signora, anche lei cappellino MAGA e grinta da vendere, spiegava sotto i fari di diverse TV che la democrazia non ha senso se il voto è falsato (in privato però ammetteva che lei è filippina, quindi non vota in America).

A rendere la situazione ancora più strana era il paesaggio attorno. Questo carnevale della politica si svolgeva nel giardinetto di fronte alla Manhattan Criminal Court. Da giorni la zona è bloccata da un mare di transenne, barricate, blocchi di cemento alzati da centinaia di agenti che si aggirano convulsamente su camionette blindate, in questo angolo a sud di Manhattan occupato dagli edifici della giustizia e vuoto di passanti, commerci, vita. Strade militarizzate e deserto urbano sono alla fine una miscela che lascia interdetti. È come se da qualche parte esistesse una minaccia che non si vede, che comunque esiste e che magari esploderà. La polizia teme per l’arrivo a New York di migliaia di trumpiani arrabbiati, nel caso il loro beniamino venisse incriminato. Le misure di sicurezza sono state rafforzate un po’ ovunque ma, appunto, ci si chiede se il pericolo è reale o percepito. Esiste davvero la possibilità di un ripetersi del 6 gennaio, questa volta non contro il Congresso ma contro un tribunale? Oppure l’America sfibrata, invelenita da decenni di veleni li inventa da sola i suoi nemici e fantasmi?

New York è l’epicentro di quello che potrebbe succedere, ma l’onda si riversa ben oltre. In Florida, ci si prepara a una serie di proteste davanti a Mar-a-Lago, la residenza privata di Trump. Fonti dell’intelligence rilevano un “aumento significativo” di minacce on line contro politici e magistrati, soprattutto contro il procuratore Bragg che ha condotto l’indagine. Un rapporto della “Homeland Security” pubblicato domenica spiega che alcuni estremisti di destra potrebbero ritenere l’arresto di Trump come “una linea sulla sabbia”, qualcosa che non può essere superato, pena l’esplodere di una reazione violenta e distruttiva. Si affilano le armi anche ai livelli più alti della politica di Washington. L’“American first Policy Institute”, un gruppo che raccoglie denaro di non chiara provenienza, prepara una ricerca da distribuire ai media che punta il dito contro “l’abuso della giustizia al servizio della politica”. Gruppi di pressione repubblicani stanno investendo su una serie di spot TV nazionali il cui obiettivo principale è proprio l’accusatore di Trump, Alvin Bragg, accusato di perseguitare l’ex presidente mentre New York si trasforma in un “inferno di criminalità”.

Insomma, come altre volte nel passato, Trump spacca l’America, “fa del suo personale interesse un caso che riguarda tutta la nazione” come ha detto David Axelrod, piccona le istituzioni, mostra quanto la democrazia possa essere fragile se travolta dal vento del risentimento e della protesta. Il profilo un po’ bislacco della manifestazione di New York non deve quindi ingannare. Quello che sta per iniziare è probabilmente uno dei momenti più cattivi e turbolenti della storia americana, che si placherà – forse – solo con il risultato delle presidenziali 2024. L’immagine più emblematica di quanto sta per iniziare la si è vista allora solo un momento, proprio lunedì sera, nel giardino davanti al tribunale. La piccola folla si era ormai dispersa e il buio era tagliato dai fari delle camionette di polizia. Una bandiera a stelle e strisce giaceva su una panchina. Lacera, sporca, qualcuno l’aveva dimenticata lì.

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