Da anni considero Massimo Palma una delle voci più interessanti e feconde del panorama intellettuale italiano. Non solo, a livello filosofico, per i suoi dotti saggi (Benjamin e Niobe. Genealogia della “nuda vita”, Studio su Eric Weil, Politica e diritto in Kojève, Foto di gruppo con servo e signore) e le preziose curatele (Economia e società di Max Weber, Piccole ricapitolazioni comiche. Scritti su Hegel 1929-1956 di Georges Bataille, Senza scopo finale. Scritti politici ed Esperienza e povertà, Tecniche di esposizione – assieme a Marina Montanelli – di Walter Benjamin), ma anche, e soprattutto, per i suoi libri fuori da ogni genere e definizione, ciascuno un unicum incastonato in un percorso originale quanto coerente.

Il tratto distintivo di Palma è quello di vagliare, analizzare e collegare dati apparentemente distanti (come nell’etimo di “intelligenza”), cogliere incroci diacronici, parentele mentali e, verrebbe da dire, spirituali che attraversano sotterraneamente epoche, fino a svelare significati ulteriori ed epifanie improvvise. Così nel suo esordio, Berlino Zoo Station, mostrava la stratificazione impressionante di storia, genio e dolore nella capitale tedesca, facendo dialogare il giovane Hegel, il Bowie della trilogia in loco e gli U2 di Achtung Baby; in maniera ancora più vertiginosa, in Happy Diaz, si raccontava la settimana di Genova 2001, e quindi tutte le rivendicazioni e le istanze, prima della follia e del massacro, attraverso le canzoni dei gruppi di Manchester dei primi anni’80 e i personaggi de L’uomo che fu Giovedì di Chesterton; Così, in Nico e le maree, più romanzo lirico che saggio, ripercorreva la parabola fulminante e autodistruttiva della musa dei Velvet Underground, ricostruendo la storia di traumi e rimozioni del Novecento tedesco.

Una penna del genere non poteva che trovare la propria naturale collocazione in Nottetempo, realtà editoriale di rara attendibilità dal punto di vista saggistico. Eppure, pur avendoci abituato a intuizioni spiazzanti e accostamenti inattesi, stavolta Palma ha davvero alzato il tiro, sfidando il lettore a una scommessa ancora più audace del solito: raccontare ciò che è più atrocemente indicibile e, al contempo, sommerso dalla retorica, attraverso qualcosa di oscuro, incomprensibile e alieno al grande pubblico. Ovvero, raccontare il volto più inconcepibilmente sorridente e cinicamente deformato della più grande tragedia del Novecento (Anna Frank) con l’analisi di un disco di culto in una ristrettissima nicchia di ascoltatori indie degli ultimi venti anni (In the Aeroplane over the sea dei Neutral Milk Hotel); da un lato affrontare il tema più consunto e banalizzato, nell’impossibilità di accettarne razionalmente l’orrore, dal tritatutto mediatico (la Shoah), dall’altro imporre il proprio talento ermeneutico a un disco apparentemente incomprensibile, irriducibilmente minore, fieramente lontano dal grande pubblico.

Palma (che aveva già dedicato alla testimonianza poetica della Shoah uno dei suoi libri più profondi, Trauma e memoria in W.B. Sebald, Paul Celan, Charlotte Salomon) ci offre il suo consueto scavo filologico, l’abituale vertigine concettuale, la puntuale abilità di indicare legami invisibili, trame ignote eppure potenti, eredità inconsce e subitanee rivelazioni. Solo che stavolta non applica la sua formidabile lente esegetica a icone planetarie (Bowie, Warhol, U2), pensatori dall’impatto epocale (Hegel, Benjamin) o eventi a tutti noti (Genova 2001). “Scegliere la storia più terribile del Novecento per raccontare il quotidiano di esistenze dette male (…) disporre infinite coincidenze su un piano unico in cui i tempi si mischiano, i miti si giustappongono – tutto questo è una scelta davvero impropria, ma riuscita”, scrive Palma del disco, con una sentenza che vale benissimo anche per il suo libro.

E non si può non dichiarare la scommessa vinta, quando si giunge al termine della lettura e si leggono parole così definitive: “…nell’Aeroplano sopra il mare Anne Frank finalmente resiste. Resiste alle volgarizzazioni, alle tinte melodrammatiche di cui è piena la ricezione. Alle scritte offensive e impertinenti sui muri. Ma soprattutto a ogni discorso sulla memoria condivisa, a far quadrare i conti e i contorni di quel ricordo ingestibile chiamato Shoah. Semplicemente obbliga a tornare, a esitare davanti al suo modello, a inciampare in dettagli mai notati. Costringe il fantasma a non uscire più di scena: rimane sul palco e non accetta mazzi di rose, nessun applauso”.

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