Hanno dimezzato l’uso delle intercettazioni continuando a operare in un territorio “caratterizzato da un sistema mafioso endemico” e ottenendo grandi risultati nella lotta alla criminalità. È quanto ha affermato il procuratore generale di Potenza Armando D’Alterio nella cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario durante la quale è emerso il “caso Basilicata”: una terra in cui negli ultimi anni si è manifestata “in modo virulento, la presenza di organizzazioni di tipo mafioso”. A raccontare in maniera efficace la vicenda sono i numeri forniti dal pg D’Alterio che ha spiegato come nonostante il numero di indagini sia notevolmente cresciuto nel corso degli ultimi anni, gli inquirenti hanno comunque ridotto notevolmente le captazioni. Anche per le inchieste dell’Antimafia.

I numeri, appunto. “Nel periodo 2017/18 per reati di competenza Direzione distrettuale Antimafia – ha spiegato il procuratore generale potentino – era stata esercitata l’azione penale nei confronti di 15 imputati, nel periodo attuale, invece, si è arrivati all’esercizio dell’azione penale nei confronti di 314 imputati, mentre i soggetti attualmente iscritti per reati di competenza Dda sono cresciuti dai 782 del 2017 agli attuali 1766 . Le misure cautelari adottate, sempre per reati di competenza DDA, sono state nr 17 a carico di 191 indagati, mentre pende richiesta a carico di altri 90 indagati”. Numeri più che raddoppiati insomma.

E se complessivamente in Italia, come ha spiegato alla Commissione Giustizia del Senato il professore di Diritto penale e consigliere giuridico dell’ex-ministro della Giustizia Marta Cartabia Gian Luigi Gatta, le intercettazioni sono in calo rispetto agli anni passati, in Basilicata sono state addirittura dimezzate: “Il dato – ha descritto D’Alterio – se confrontato con quello dell’anno precedente, mostra un decremento del numero dei procedimenti fruenti di intercettazioni, da 124 a 60, con decremento del costo complessivo distrettuale (da 2.832.795,89 a 1.993.835,98): meno 838.960 (circa 900000)”. Un significativo risparmio per le casse dello stato che per l’alto magistrato è stato possibile grazie al “corretto ed efficace utilizzo delle intercettazioni di conversazioni, cui gli Uffici requirenti correttamente ricorrono con frequenza”. Insomma, i magistrati utilizzano le intercettazioni quando è necessario “sia per i reati di criminalità organizzata, sia – com’è necessario che sia, in presenza dei presupposti di legge – per i gravi reati contro la pubblica amministrazione, ed altre parimenti gravi fattispecie, siano o meno connesse a delitti di mafia”.

Il merito è anche dei procuratori della Repubblica, secondo il pg lucano: la riforma Bonafede ha infatti affidato a loro il compito di controllare “continuativamente” gli esiti delle intercettazioni e decidere “la non annotazione di brani di ascolto il cui contenuto possa risultare diffamatorio o lesivo della privacy, se irrilevante a fini d’indagine” e questo ha avuto come “effetto probabilmente non del tutto previsto, ma assolutamente positivo” quello di “valutare tempestivamente l’esigenza di proroga o meno” dell’attività di ascolto.

Un caso che diventa emblematico che si considera che la Lucania è una terra che sta vivendo un momento di grande impegno nella lotta alle mafie: quella locale, ma anche quelle che da territori vicini come Calabria e Campania, operano in sinergia con i clan della Regione. Le indagini portate avanti negli ultimi anni dalla Dda di Potenza guidata dal procuratore Francesco Curcio ha infatti permesso di neutralizzare “pericolosissime infiltrazioni di carattere economico-criminale delle più potenti organizzazioni mafiose campane e calabresi”.

L’impegno dei magistrati e delle forze dell’ordine ha portato a risultati particolarmente significativi nella lotta alla criminalità organizzata. Come la condanna del “clan Schettino” che secondo gli inquirenti dominava sul litorale ionico della Basilicata. O ancora come i due secoli di carcere inflitti pochi giorni fa al “clan Riviezzi” diventato punto di riferimento nel narcotraffico anche internazionale. Questi risultati importanti permettono allo Stato di acquisire attraverso sequestri, confische e misure patrimoniali, le grandi ricchezze delle mafie: l’uso delle intercettazioni, quindi, diventa una sorta di investimento.

“È ovvio – ha evidenziato il procuratore generale – che i fondamenti della cultura aziendalistica non possono de plano applicarsi all’amministrazione della giustizia, nella quale l’impegno per contrastare gravi fenomeni delittuosi non può a priori matematicamente fondarsi sulle previsioni di spesa”, ma bisogna considerare che “circa la metà della spesa nazionale annua (200 milioni negli ultimi anni) è, in media, riferibile agli Uffici di Napoli, Roma, Milano, Palermo e Reggio Calabria”. Un dato che evidenzia come quei fondi vengano principalmente utilizzati proprio per la lotta alle mafie. “E tuttavia – ha aggiunto il magistrato – se si tiene conto, oltre che degli irrinunciabili effetti repressivi dello strumento, anche dei risultati economici agevolati dalle intercettazioni, si evidenzia che il bilancio in materia è estremamente attivo, tenuto conto dell’esito, economicamente più elevato in raffronto, delle confische di patrimoni illeciti che lo strumento consente, nel momento in cui disvela la fittizietà della intestazione ad incensurati di assetti economici di enorme rilevanza e la provenienza illecita degli stessi. Gli assetti confiscati a prestanomi di capimafia varrebbero di per sé a coprire decine di annualità di spesa nazionale per le intercettazioni”. E anche in questo caso, i numeri spiegano tutto: dal 2009 al 2022 i versamenti allo Stato eseguiti da Equitalia giustizia, secondo quanto riportato dal Ministero, segna una cifra da capogiro: oltre 2 miliardi e 200 milioni di euro.

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