“Quando Anna indossa un abito di un altro periodo lo porta con lo spirito di oggi. Lei fa rivivere per noi un momento lontano che credevamo di conoscere, un passato che non abbiamo vissuto ma pensiamo sia stato tale. Anna inventa la moda, nel vestirsi fa automaticamente quello che noi faremo domani” così Karl Lagerfeld descriveva Anna Piaggi nella prefazione del libro Anna-Cronique del 1986, scritto e illustrato dallo stesso Lagerfeld insieme alla Piaggi. E se all’epoca fosse esistito Instagram, Anna Piaggi sarebbe stata la geniale incarnazione della passione per il vintage mescolata all’intuizione di nuove tendenze, perché la moda che segna le epoche e ritorna ciclicamente contaminando il nuovo non potrebbe trovare un’icona più adatta a rappresentarla attraverso l’immagine.

Anna Piaggi non è stata solo una giornalista e redattrice di riviste come Arianna, Vanity e Vogue, ma una grande protagonista della moda del Novecento, creando un suo stile unico e inimitabile che presto la fece diventare migliore amica di stilisti come Gianni Versace, Manolo Blahnik e, appunto, Karl Lagerfeld, che oltre a vestirla amava moltissimo ritrarla attraverso foto e illustrazioni: il disegno, nell’ottica della Piaggi e di Lagerfeld, aveva un potere creativo e immaginifico ancora più potente rispetto all’obiettivo. Come ama ricordare Carla Sozzani, Anna Piaggi, che era nata a Milano nel 1931, da ragazza faceva la segretaria a Rho e vestiva con impermeabili Burberry’s in maniera piuttosto sobria, fino a quando la sua vita non cominciò a farsi ispirare da alcune personalità che furono in grado di far emergere le sua più autentica e originale vena creativa. Uno di questi fu il fotografo Alfa Castaldi di cui la Piaggi si innamorò e con cui, dopo il matrimonio a New York nel 1962, instaurò un rapporto simbiotico dal punto di vista esistenziale e professionale. Gli altri furono senz’altro Vern Lambert, che alla metà degli anni ’60 vendeva abiti usati al Chelsea Market a Londra e vestiva star del calibro dei Beatles e Jimi Hendrix e l’immancabile Karl Lagerfeld.

La personalità della Piaggi strabordava dai suoi outfit senza mai apparire eccessiva, il suo genio creativo la portava a mescolare mantelli di velluto anni venti con gli abiti t-shirt di Missoni, tuniche etniche raccolte nei tanti viaggi in giro per il mondo con sandali di Manolo Blahnik, parrucche da Maria Antonietta e pezze da corsaro sull’occhio, cimeli degli indiani d’America e feticci punk. Questa eccentrica musa, di cui il 7 agosto ricorre il decimo anniversario della morte, ha praticamente inventato il vintage quando l’usato d’autore non interessava a nessuno, precorrendo le tendenze che a distanza di qualche decennio avrebbero ispirato tutti gli stilisti entrati a pieno diritto nell’olimpo del fashion system mondiale.

Una ciocca di capelli blu, anche quella imitatissima negli anni a venire, insieme a una matita per gli occhi dello stesso colore e a due pomelli arancioni sulle guance, una smisurata collezione di copricapi di ogni foggia che accompagnavano una mistione di capi d’abbigliamento scelti con minuziosa attenzione fra i mille pezzi del suo guardaroba la rendevano immediatamente riconoscibile alle sfilate, seduta in prima fila tra centinaia di direttrici e redattrici di testate di moda tutte rigorosamente in nero.

La vena artistica della Piaggi si esprimeva non solo attraverso i suoi outfit ma anche nel linguaggio dei titoli e delle parole che stravolgeva e coniava mischiando inglese, latino e francese nella famosissima rubrica Doppie Pagine che Vogue le aveva affidato nel 1988 e che curò fino alla sua morte. Se pensiamo che nel 2006 il Victoria and Albert Museum di Londra ha allestito la Anna Piaggi Fashion ology, una mostra dedicata interamente a lei, forse viene da chiedersi se l’Italia, che aveva la sua Iris Apfel molto tempo prima dell’avvento dei social, abbia dato la giusta importanza a questa straordinaria figura che ha intriso di sé la moda, l’arte e la cultura tra gli anni Sessanta e l’inizio del Duemila.

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