L’ultimo intervento sono stati i 5 arresti per l’omicidio di Simone Stucchi, il 21enne ucciso durante uno scontro tra bande a Pessano con Bornago. I colpi, secondo la ricostruzione dei suoi uffici, sono stati sferrati da un ragazzo di appena 17 anni. Poi ci sono le aggressioni personali, le maxi-risse, le rapine: un mare di piccoli reati che si concentra attorno alle zone della movida, dove giovani e giovanissimi si riuniscono. Spuntano coltelli, tirapugni, bastoni. I moventi? Futili in tanti casi, inesistenti in altri. Il dito spesso puntato contro gli italiani di seconda generazione. Un concetto che Ciro Cascone, capo della Procura per i minorenni di Milano, respinge: “Troviamo spesso gruppi composti da ragazzi di origine nordafricana, lombarda, siciliana e così via. Non ne farei una questione di stranieri, italiani e italiani di seconda generazione. Questa è una nostra barriera psicologica. I ragazzi si vedono come tali e basta”, chiarisce subito. Quello che non nega è che dentro le stanze di via Giacomo Leopardi ci sia da lavorare, sempre più duro.

C’è un aumento di reati compiuti da minori o è solo una percezione?
Una doverosa premessa: sono quindici anni che si parla di emergenza educativa a causa della devianza adolescenziale, questo tasso è costante. In seguito alla pandemia, tuttavia, abbiamo avuto anche noi la percezione di un aumento. Dopo il Covid sono cresciute le aggressioni e le rapine, soprattutto di gruppo. È principalmente cambiata la modalità: oggi si agisce con maggiore frequenza in branco, spesso numeroso. Una modus operandi che, nell’ottica di chi è protagonista di atti di violenza, diluisce le responsabilità. Ma vorrei chiarire un aspetto: in molti casi non si tratta di vere e proprie baby gang.

In che senso?
Sono gruppi liquidi e fluidi che si strutturano e destrutturano: ragazzi, tipicamente tra i 16 e i 22 anni, che oggi stanno insieme e domani si separano ricostruendo nuove bande. Potremmo definirle delle Ati, le associazioni temporanee d’impresa. E chiamarle baby gang vuol dire in un certo senso dare loro una legittimazione. Un altro tratto tipico è il consumo sempre più smodato di alcol e droga che, abbassando l’autocontrollo, diventa uno stimolo al commettere reati.

Di che tipologie di reati stiamo parlando?
Principalmente rapine, ma negli ultimi tempi si stanno moltiplicando le aggressioni. In alcuni casi l’elemento predatorio è strumentale, quasi una scusa, il trofeo di guerra. Il vero obiettivo è invece l’aggressione personale, spesso innescata da pregressi screzi tra le bande. In altri casi si tratta di pura sopraffazione, con vittime scelte in maniera casuale. E sono in crescita anche i casi di resistenza a pubblico ufficiale, a volte per banali controlli dei documenti che vengono vissuti come soprusi. C’è un’insofferenza che diventa violenza e un grande effetto emulativo.

Credete che ci sia un sommerso di violenze non denunciate?
Chiaramente dal nostro punto di osservazioni vediamo ciò che viene denunciato, ma sappiamo da fonti informali che esiste un grande bacino di vittime che resta in silenzio per timore di ritorsione o perché esplicitamente minacciato. A volte è anche questione di sfiducia e per questo voglio che i ragazzi sappiano che la nostra reazione è sempre commisurata all’accaduto. Le denunce, oltretutto, ci aiutano e creano le condizioni di intervento, anche perché spesso si tratta di reati ‘seriali’ quindi da una denuncia riusciamo a ricostruire diversi episodi.

Il Covid ha cambiato lo scenario?
Ha sicuramente inciso sulla vita di questi ragazzi con le restrizioni che ne sono seguite. Possiamo dire con ragionevole certezza che una porzione dei comportamenti devianti osservati oggi non sarebbero esistiti senza la pandemia. Penso soprattutto a fenomeni come le risse e quella che chiamiamo malamovida. I lockdown si sono chiaramente innestati su malessere, isolamento e assenze familiari già esistenti in alcuni contesti sociali. La rabbia ha trovato la propria via d’uscita in due modi: interiore, con un aumento dei problemi psicologici; esteriore, con l’aumento della violenza verso i coetanei. Del resto parliamo di adolescenti che hanno vissuto per un anno al chiuso, con la scuola in Dad, senza occasioni di socialità – dalla palestra agli oratori fino alle discoteche – in cui dare sfogo alle proprie insoddisfazioni e alla propria esuberanza. Così oggi cavalcano ogni occasione che hanno a disposizione. È una lettura soddisfacente? Solo in parte. Non dobbiamo accontentarci e insistere sulla prevenzione, altrimenti abbiamo fallito: la procura è l’ultimo approdo, non dobbiamo essere l’unico argine. Noi siamo la terapia sintomatica, oggi serve un antibiotico.

Tra le cause inserisce anche i social?
Li ritengo più un mezzo catalizzatore e amplificatore. A volte addirittura il fine. I ragazzi sono invisibili agli occhi degli adulti: non ci rendiamo conto che delle loro esigenze e così la platea virtuale diventa un palcoscenico dove esibirsi, dove avere riconoscimento sociale. Ecco perché oggi chi commette un reato in età adolescenziale ha quasi l’urgenza di farlo sapere. Per questo sempre più spesso rintracciamo foto in stile Gomorra, con armi e soldi.

Nel caso di Peschiera del Garda, TikTok ha funzionato anche da piattaforma organizzativa.
Era già successo nella maxi-rissa di Gallarate nell’aprile 2021. Parte il tam-tam e diventa una specie di richiamo della foresta, dove i ruoli non sono definiti: io vado perché vanno tutti, magari parto con l’intenzione di guardare e finisco per partecipare. In molti casi si tratta di azioni improvvisate e nell’improvvisazione può accadere l’imprevedibile.

Spesso sul banco degli imputati, con un ruolo d’istigazione, sono finiti anche i cantanti trap.
La musica è un altro strumento formidabile per trasmettere messaggi, attorno alla quale si coagula chi vive situazioni simili a quelle narrate. Durante un processo, un ragazzo che faceva musica trap, rispondendo sul contenuto dei suoi pezzi che inneggiavano a violenza e sopraffazione, ha sostenuto che quella fosse cultura. Questa lettura vale però solo per chi lancia il messaggio e racconta, chi riceve il messaggio può interpretare diversamente. La risposta tuttavia non è censurare, ma fornire modelli alternativi e positivi perché spesso di tratta di persone che hanno situazioni di solitudine familiare.

Sembra suggerire che non esista solo il lato repressivo.
Assolutamente no. Dobbiamo ingaggiarli in un percorso educativo, soprattutto nelle periferie. Accompagnarli investendo in politiche sociali e giovanili. Ogni ragazzo che recuperiamo in quell’età è un adulto in meno che prenderà una strada sbagliata. Ma non spetta a noi risolvere i problemi: la procura interviene quando c’è un reato. Al massimo possiamo allargare le maglie e intervenire con strumenti “educativi rafforzati”. Ad esempio abbiamo convenuto con la questura che in casi particolari si può usare il Daspo urbano anche per i minorenni, grazie a una lettura ampia della norma. E cominceremo ad applicarli: a prescindere dalla commissione del reato, di fronte alla “confusione” è possibile un ordine di allontanamento del questore da quella zona. Ma vorrei ripetere un concetto.

Prego.
Serve soprattutto prevenzione generale, fatta di interventi educativi. Serve intervenire con azioni collaterali e convergenti, coinvolgendo diversi attori. È come la ricerca scientifica: investire oggi per raccogliere domani, altrimenti poi i vaccini vanno comprati all’estero. E non parlo solo di risorse scarse internamente alla procura, ma anche nei servizi sociali che sono la nostra prima stampella. Senza soldi non si canta messa e noi dobbiamo bruciare i tempi degli interventi.

Anche perché altrimenti si innesca un senso di impunità?
Quello è un aspetto che ritengo più legato alle mancate denunce. È anche così si costruiscono i bulli di quartiere: compiono i loro reati, minacciano e vedono che l’unica reazione delle vittime è abbassare lo sguardo.

Twitter: @andtundo

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