Ormai da tempo, tracima dai nostri televisori, come un fiume in piena, una nuova figura di giornalista televisivo che, come si dice in gergo, lavora ‘in esterna’, ovvero sul campo: il cronista-corridore. Suo habitat naturale sono i programmi tv pomeridiani e serali d’informazione o presunta tale. Un ruolo, quello del giornalista-corridore, riservato, soprattutto, ai giovani o, comunque, ai meno anziani. Il giornalista-corridore dovrebbe offrire alla Rete un certificato di sana e robusta costituzione, costretto com’è a inseguire onorevoli dal comportamento poco limpido, personaggi del nostro gossip quotidiano, indagati in eventi delittuosi, migranti (meglio se islamici o neri) e occupanti abusivi di abitazioni, preferibilmente di etnia Rom.
Quest’ultimo campo d’azione, insieme a quello relativo agli usi e costumi dei musulmani che vivono Italia, è il più gettonato dai programmi che affidano i servizi a questi cronisti-corridori, insieme con ritratti delle nostre grandi città rappresentate, quanto a criminalità, come Tijuana. “I nostri inviati” li definisce chi coordina da studio, anche se mi permetto di nutrire qualche dubbio, ma spero non sia così, non solo sulla loro qualifica di inviato, ma persino sul loro contratto giornalistico.
Nobili intenti, comunque, quelli dei giornalisti-corridori, anche se spesso decisamente provocatori, per concretizzare i quali, sono necessari fiato e gambe forti. E, talvolta, anche nozioni di tecniche difensive atte a cautelarsi dai più maleducati e aggressivi fra gli intervistandi che incorrono nell’articolo 674 del codice penale: getto pericoloso di cose.
Giovani cronisti e croniste ‘coraggiosi’, come li definisce chi se ne sta in studio a condurre la trasmissione, anche se, nei casi più spinosi, i cronisti-corridori sono scortati da una gazzella dei carabinieri o da un bodyguard. L’aggettivo ‘coraggioso’ sarebbe meglio riservarlo agli inviati di guerra, molti dei quali ci lasciano pure le penne…
Ovviamente, i giornalisti-corridori lavorano insieme con chi rischia più di loro, cioè i poco citati cineoperatori le cui videocamere a spalla sono l’obiettivo primario dell’energumeno di turno: “Non mi riprendere! Guarda che te la spacco quella telecamera!”. Ed evito di citare il turpiloquio, ormai di prassi. Il clou del servizio è l’inseguimento dei poco propensi al dialogo: “Voglio solo farle una domanda”, gridano al malcapitato che fugge a velocità da Speedy Gonzales. I più temerari inseguono anche chi tenta l’arrampicata sulle scale per barricarsi in casa (spesso non sua). E qui serve allenamento: non c’è fiatone che tenga. Se raggiunta, la preda viene tempestata da domande spesso scontate.
Nel caso di abitazioni abusive: “Ma perché lei abita in una casa non sua? Perché non paga l’affitto? Perché non la restituisce al legittimo proprietario? Ma lo sa che è un reato?”. Ma certo che lo sa, ma se ne frega. Ovvio. Non sarebbe meglio intervistare il magistrato che ha firmato lo sfratto che si materializza magari dopo anni o non si materializza mai, o parlare seduti davanti a un tavolo con gli ufficiali giudiziari? È lì che sta il vulnus.
Certo, a volte questi programmi centrano il bersaglio, riuscendo, con la forza dei media, a far meritoriamente liberare gli alloggi. Ma non mi pare che così si possa affrontare seriamente un problema che è soprattutto burocratico-giudiziario-politico: chili di scartoffie sui tavoli dei giudici e mancanza di ufficiali giudiziari operativi. Ci sono circa 7 milioni di appartamenti sfitti in Italia (Istat) che attendono di essere locati o assegnati a chi ne è privo. E quelli occupati, statisticamente meno verificabili, sarebbero più o meno 50.000 (dato fornito, ad esempio, da Il Messaggero del 27 novembre 2023 “secondo stime più accreditate”). Sette milioni contro 50mila…
I campi d’azione del giornalista-corridore si estendono anche ai politici ‘beccati’ nei pressi della Camera o del Senato. Qualcuno fa il simpatico e risponde, altri accelerano il passo per raggiungere nel minor tempo possibile i salvifici portoni dei palazzi Montecitorio o Madama per infilarcisi con scatto felino, aggirando il giornalista-corridore come in una cento metri fra Noah Lyles e Marcell Jacobs. Un inseguimento fisico, ma anche verbale, con parole che si perdono nel vento.
Infine, i musulmani. Chiedere a una signora islamica velata se è il marito a imporle il velo o se può liberamente uscire sola da casa è una domanda retorica con risposta scontata. Ma che volete che dica? Che lei segue i dettami della propria religione. Mai che intervistino una donna maomettana che non porta alcun velo e vive la propria religione in maniera emancipata. Eppure ce ne sono tante. Magari qualcuna di loro viene invitata in studio, ma in strada mai, scordatevelo. Strategie politiche, ovvio.
Forse sarò mediaticamente arretrato, ma preferivo la tv dei Biagi, dei Santoro, dei Purgatori. Ogni tanto, però, si risveglia in me “quello spirto guerrier ch’entro mi rugge”, per dirla con Foscolo, e mi saltano in mente le parole del grande Peter Finch in Quinto Potere di Sidney Lumet. Finch, nei panni di un giornalista televisivo in crisi, sermoneggia in diretta, terrorizzando colleghi e produttori del network. Se le cose vanno male, “voglio che ora voi vi alziate, voglio che tutti voi vi alziate dalle vostre sedie. Voglio che vi alziate proprio adesso, che andiate alla finestra, che la apriate e vi affacciate tutti ed urliate. ‘Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più!'”.