Eppure i soldi per mettere mano all’Italia che si allaga, frana e uccide ci sono. E ci sono pure piani straordinari per usarli. Hanno nomi trionfali e rassicuranti, da “ItaliaSicura” a “ProteggItalia“, per citare i più recenti. La verità dei numeri è però un’altra: dal 1999 a oggi sono stati finanziati 11mila progetti per la riduzione del rischio idrogeologico, ma quelli ultimati sono meno della metà. Un dato che dimostra che il cambiamento climatico non può esser l’ombrello con cui i politici e gli amministratori di questo Paese riparano se stessi da ogni responsabilità, attuale e storica, dal governo Renzi e prima ancora fino al governo Meloni di oggi. Lo abbiamo scritto ieri: nell’arco di 20 anni e 14 governi, a fronte di 6 milioni di persone che vivono in aree a rischio alluvionale, la spesa effettiva per opere di prevenzione del rischio idrogeologico si è fermata a 7 miliardi, un quarto dei 26 miliardi certi e (certificati) necessari a rinforzare argini, costruire scolmatori e casse di espansione per le piene, allargare i canali tombati, tirar su muri di contenimento. Per fare, dunque, ciò che avrebbe evitato le stragi da nubifragio di ieri e di oggi.

Negli specchi di palude dell’Emilia Romagna si riflette in queste ore un Paese che convive con il rischio e piange l’ennesima tragedia evitabile. Se volete farvi davvero del male potete navigare le banche dati sulle zone a rischio e sulla spesa effettiva per evitarlo realizzate dall’Ispra. Tolgono ogni alibi ai decisori pubblici quelli sulle aree esposte a eventi alluvionali e franosi raccolti nella piattaforma IdroGeo: con il 70% della popolazione e del territorio esposti, l’Emilia-Romagna svetta nella classifica nazionale dei territori potenzialmente allagabili (45,6%), seguita dalla Calabria (17,2%), Marche, Abruzzo e tutte le altre. Quella di oggi, insomma, è ancora un’Italia da bollino rosso per un milione di famiglie, 2,4 milioni di persone, che vivono in aree alluvionali a pericolosità “elevata”. L’Italia, Repubblica fondata sul rischio.

Ma è dal censimento delle spesa effettiva e delle opere realizzate/incompiute che saltano fuori i numeri impressionanti, definitivi e vergognosi che inchiodano tutto il ceto politico dell’Italia lungo due lustri e 14 governi. Sono monitorati da Ispra nel suo Repertorio Nazionale degli interventi per la difesa del suolo (RenDis): negli ultimi 20 anni in Italia sono stati finanziati 11.204 progetti impegnando 10,5 miliardi (e poi diremo perché 10 e non 7) ma ad oggi soltanto 4.800 interventi sono stati ultimati, con una spesa effettiva di 3,6 miliardi. Dal totale van tolti 1.800 ancora in fase di progettazione, 1.434 in fase di esecuzione, 208 revocati. Di ben 2.607 interventi poi non si hanno proprio notizie, i relativi dati “non sono disponibili” anche se cubano 2 miliardi di risorse. Guardando alla sola Emilia-Romagna, dal 1999 al 2023 sono stati finanziati 529 progetti di messa in sicurezza con un impegno spesa di 561 milioni di euro, ma solo 368 sono stati ultimati spendendo: all’appello mancano 161 interventi che valgono 258 milioni, oltre la metà dei soldi destinati alla regione.

Soldi che nel quadro nazionale, tolte le opere consegnate e in corso di progettazione/esecuzione, totalizzano 2,6 miliardi di euro bloccati su progetti strozzati da procedure burocratiche o incagli sulle competenze, criticità puntualmente segnalate dalla Corte dei Conti negli anni. La durata media complessiva degli interventi finanziati non mostra sostanziali progressi né differenze tra le diverse aree geografiche del Paese: gli interventi finanziati nel Centro hanno tempi di attuazione medi di 4,6 anni. Più aumenta il tempo di realizzazione, più sale il costo.

Venendo ai giorni nostri, l’intervento più radicale in materia è stato il “ProteggItalia”. Un Piano nazionale per la “mitigazione del rischio idrogeologico, il ripristino e la tutela della risorsa ambientale” da 14,3 miliardi di euro in 12 anni fino al 2030. Una svolta nelle intenzioni del primo governo Conte che il M5S annunciava come una “misura storica” e non a torto, visti i precedenti e lo stato delle cose. Il 20 febbraio 2019 arriva dunque il decreto che promette una svolta radicale sugli investimenti per la mitigazione del rischio idrogeologico, agendo sul fronte dei fondi, delle competenze e delle procedure che dovevano essere finalmente improntate non a rincorrere l’emergenza ma a una programmazione pluriennale con un ottica sistemica e funzionale. In parte ha funzionato. Negli ultimi 5 anni, dal 2019 al 2023, gli interventi ultimati in tutta Italia sono stati solo 597 con una spesa effettiva di 308 milioni, pari a una media di 61 milioni l’anno anziché 1,1 miliardi come prevedeva il ProteggItalia.

Parimenti lontano dall’obbiettivo era arrivato il tentativo di centralizzare la gestione della materia con una cabina di regia a Palazzo Chigi. Ci provò Matteo Renzi nel maggio del 2014 istituendo una specifica unità di missione “contro il dissesto idrogeologico e per lo sviluppo delle infrastrutture idriche” in seno alla Presidenza del Consiglio chiamata ItaliaSicura. La struttura è stata operativa fino a luglio 2018 e poteva contare su 7,7 miliardi di euro. Fino a quando il governo Lega-M5S la chiuse (con il decreto-legge n.86 del 2018) e trasferì le sue competenze al Ministero dell’Ambiente. Oggi si assiste al rimpallo di responsabilità, ma i numeri dicono che né prima né dopo l’accelerazione promessa è arrivata: nel periodo di ItaliaSicura (2014-2018) sono stati ultimati 163 progetti su 405 finanziati.

Ecco dunque le cifre che raccontano di un Paese che non vuol imparare da se stesso e dal suo passato. Le ragioni non politiche ma tecnico-procedurali le racconta ancora una volta la Corte dei Conti. L’ultima analisi su progressi e criticità in materia risale all’autunno 2021, con un giudizio grave e preoccupato. Per i magistrati contabili il “ProteggItalia ha certo avuto il pregio di “unificare il quadro generale dei finanziamenti, ma non ha risolto i problemi dell’unificazione dei criteri e delle procedure di spesa, dell’unicità del monitoraggio e dell’accelerazione della spesa”. Qualche dato. Quando si tira una linea su 3,1 miliardi per la voce “misure di emergenza”, che sono di competenza della Protezione Civile e dei 18 commissari delegati per il triennio 2019-2021, il differenziale tra le risorse stanziate per progetti approvati e i pagamenti effettuati (rilevati dal numero di gare avviate e dai relativi importi finanziati che entrano nel ciclo di realizzazione delle opere) è inferiore alla metà: 1 miliardo su 2,2. Alla voce “misure di prevenzione”, di competenza stavolta del ministero dell’Ambiente, si registrano altri ritardi, ad esempio per quelle a valere sui fondi del “Programma di Sviluppo Rurale Nazionale”: su 356 milioni di progetti finanziati il totale nel biennio 2019-2020 pagato è di 77,3 milioni, in pratica dei 35 progetti finanziati ancora nel 2019 solo 23 hanno concluso l’iter con il pagamento, pari al pari al 21,7 per cento della “dote”.

Per questo l’indagine mette ancora una volta sotto la lente le “inefficienze del sistema”: l’incapacità delle Regioni di definire a monte gli interventi prioritari, distinguendo emergenza e prevenzione, i lunghi iter concertativi tra amministrazioni, i tempi biblici che passano dalla progettazione al collaudo (in media oltre 4 anni ma con punte di 7-10), la governance spaccata tra commissari regionali, ente locale e amministrazione centrale che eroga i fondi, la carenza di strutture tecniche e personale e via dicendo. E qui veniamo a governanti più recenti. Proprio ieri si ricordava come alcuni temi, quando fa bel tempo, scivolino fatalmente via dall’agenda politica, la stessa che poi tenta il riscatto a suon di proclami. Ecco due esempi. Attende ancora un decreto la legge 233/2021 del governo Draghi che prevedeva (all’art. 16, comma 3) l’individuazione degli interventi di mitigazione del rischio idrogeologico nelle regioni del centro-nord”. Non è stato ancora dottato il decreto attuativo della legge che converte la 186/2022 del governo Meloni che stanziava 2,5 milioni per formare e reclutare personale a tempo indeterminato “per potenziare le attività finalizzate a mitigare il rischio idrogeologico e rafforzare il contingente dell’Autorità di bacino distrettuale dell’Appennino meridionale”. Come sempre, meglio dare la colpa al clima. Peggio di sempre, darla agli ambientalisti come ha fatto il ministro dell’Ambiente Pichetto Fratin, il primo a doversi preoccupare di tutto questo anziché provocare l’unica risata in un fiume di lacrime.

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