Nonostante ci sia qualcuno che sostiene il contrario, l’austerità in Italia c’è stata. E ha colpito uno dei cardini dello Stato sociale: la sanità. La conferma viene dalla Corte dei Conti che, nell’ultimo referto indirizzato al Parlamento sulla gestione finanziaria dei servizi sanitari regionali, mette nero su bianco gli effetti della spending review. Il documento si compone di 256 pagine fitte di numeri e tabelle, che restituiscono l’immagine di un Paese in cui, nonostante l’invecchiamento della popolazione, negli ultimi anni – con l’eccezione della parentesi del Covid – i governi di ogni colore che si sono succeduti hanno scelto di tagliare quelle che ritenevano, evidentemente, uscite superflue.

“Le politiche di contenimento della spesa sanitaria condotte attraverso i Piani di rientro regionali e aziendali e la spending review”, scrivono i magistrati contabili, “sono state nel corso del decennio passato assai efficaci”. Tra il 2017 e il 2019, infatti, l’aumento della spesa “è risultato essere inferiore, rispetto ai tendenziali delineati dal Def 2016, di 7,2 miliardi in valori cumulati, e i disavanzi dei Servizi sanitari regionali si sono ridotti, nell’arco temporale 2012-2020, da 2,1 a 0,7 miliardi”. Non solo. Mentre tra il 2000 e il 2008 la spesa sanitaria corrente, ovvero al netto degli investimenti, è cresciuta del 60,4% a una velocità doppia rispetto al Pil (+31,9%), nel periodo compreso tra il 2008 e il 2019 è aumentata soltanto del 6,6%, tre punti percentuali in meno dell’incremento del Pil (+9,7%). Insomma, gli esborsi per pagare infermieri, medici, farmaci e cure per i pazienti sono stati contenuti in modo drastico.

Il punto, però, è che l’Italia rappresenta un unicum a livello europeo. Il capitolo del documento della Corte dei Conti dedicato al confronto con gli altri grandi Paesi Ue delinea infatti i contorni di uno scenario assolutamente eccezionale. Nel 2020 la spesa sanitaria pubblica pro capite in Italia si è attestata a 2.851 dollari all’anno (2.630 euro), contro i 5.905 dollari assicurati a ogni cittadino tedesco, i 4.632 dollari dei francesi e i 4.158 dollari degli inglesi. Insomma, un abisso che si è progressivamente allargato nel corso del decennio 2008-2019 e che nemmeno durante la pandemia si è riusciti a colmare. Nel solo 2020, la spesa pro capite italiana è cresciuta dell’8,4% e l’anno dopo del 7,1%, molto meno che nel Regno Unito (+20,2%), meno che in Germania (+9,7%) e Spagna (+9,5%) e un po’ di più che in Francia (+5%). Tuttavia, le maggiori risorse stanziate dai governi per far fronte all’emergenza sono state insufficienti per recuperare oltre dieci anni di tagli.

Tra il 2008 e il 2019, infatti, la spesa sanitaria pro capite è aumentata del 34,5% in Francia, del 40,1% nel Regno unito, dell’81,4% in Germania e solo del 15,4% in Italia. Appare quindi evidente che il problema è strutturale. Il Covid, insomma, è andato ad incidere su un sistema che già da anni scontava una situazione di sottofinanziamento, con liste d’attesa infinite, cure non erogate e una carenza cronica di risorse umane. Basta guardare all’andamento della spesa sanitaria in rapporto al Pil che, sempre tra il 2008 e il 2019, in Italia si è ridotta dello 0,2%, passando dal 6,6% al 6,4%. Nello stesso lasso di tempo, Francia, Germania e Regno Unito, invece, l’hanno aumentata in media di quasi due punti percentuali, portandola, nel 2020, su valori pari o superiori al 10%.

Anche guardando ai dati più recenti la situazione non cambia. Nel 2021, il nostro Paese ha speso in sanità il 7,1% del Pil, una percentuale superiore soltanto alla Grecia (5,9%), mentre Madrid destinava il 7,8% del proprio reddito nazionale, Londra il 9,9%, Parigi il 10,3% e Berlino addirittura il 10,9%. Come si spiega? Per i magistrati contabili, la maggior crescita della spesa nei Paesi europei dipende in parte da “scelte di policy” e in parte da una più grande “dinamicità delle rispettive economie”. Insomma, i governi italiani hanno preferito destinare ad altro le poche risorse a disposizione, limando il più possibile la spesa sanitaria. In parte, però, sono stati costretti a farlo dalla ventennale stagnazione del Paese che ha ridotto al lumicino i margini di manovra. In un passaggio della relazione i magistrati contabili ricordano però anche che la tutela della salute va contemperata con l’equilibrio dei conti pubblici. “Nella realizzazione del dettato costituzionale disposto dall’art. 32 occorre contemperare gli interessi connessi alla tutela della salute con quelli legati alla sostenibilità finanziaria del sistema, in quanto il diritto alla salute deve essere bilanciato con il principio della regolarità dei conti pubblici, anch’esso costituzionalmente previsto dall’art. 81 e, di riflesso, implicito nell’art. 97 della Cost.”.

Un passaggio piuttosto articolato è dedicato ai tagli fatti dal governo Gentiloni. “A causa del mancato contributo, previsto dall’art. 1, co. 392 della legge di bilancio 2017, agli obiettivi di finanza pubblica da parte delle autonomie speciali, il decreto 5 giugno 2017 ha nuovamente rideterminato il livello del fabbisogno sanitario nazionale, stabilendo ulteriori riduzioni, pari a 423 milioni di euro per il 2017 e 604 milioni di euro a decorrere dal 2018. Pertanto, attraverso tagli lineari imposti dalla normativa statale, le Regioni (a statuto ordinario) hanno assicurato un contributo aggiuntivo alla finanza pubblica ai fini del rispetto dei vincoli derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’UE”.
Le prospettive per il futuro rimangono fosche. Si legge infatti ancora nel documento che dopo il rilevante incremento delle risorse per fronteggiare la spesa emergenziale degli anni 2020 e 2021 a causa della pandemia da Covid-19, si profila un nuovo “ridimensionamento della crescita della spesa sanitaria nel 2022, fino ad un suo contenimento che proseguirà fino al 2024 ed ascrivibile ai costi del personale e alla definitiva cessazione dei costi legati alla struttura commissariale per l’emergenza. Si sottolinea che questa dinamica della spesa è coerente con gli andamenti medi registrati negli anni precedenti, anche per la prosecuzione degli interventi di razionalizzazione dei costi già programmati a legislazione vigente” (servizio studi della Camera, ndr)”.
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