“Per rientrare al lavoro ho anche smesso di curarmi, ma non è bastato. Ieri l’azienda mi ha comunicato che mi manderà alla collegiale dell’Asl per poi dichiararmi inidonea al lavoro e licenziarmi. Purtroppo siamo tanti, soli contro un muro del pianto”. Non lontano da Milano c’è una multinazionale che fattura più di 300 milioni di euro l’anno. In fondo allo stabilimento c’è un magazzino e da lì risponde un’impiegata affetta da patologica cronica autoimmune in massima cura farmacologica. Ha esaurito i giorni di malattia a sua disposizione, ma quando chiede di tornare l’azienda da 1800 dipendenti risponde che la sua mansione “non è compatibile con lo smartworking“, che se proprio vuol tornare al suo posto, deve farlo in presenza. Solo che il suo posto non c’è più: al suo rientro non trova la scrivania, non ha un pc e neppure il badge che a lei, incontinente, eviterebbe di dover attraversare ogni volta lo stabilimento. Quel che trova è una sedia in laminato marrone nello spogliatoio, in fondo al magazzino, dove passa le ore senza occupazione, aspettando la fine di un “turno lavandino” scandito solo dalle gocce che cadono: clin-clan, clin-clan. Il titolare dell’azienda, nominato cavaliere del Lavoro nel 2022, forse non sa quanto quella sua dipendente abbia lottato e sofferto per tenersi stretto il suo, che a furia di camminare attorno al cratere lasciato da un legislatore distratto, è arrivata a fare il più radicale dei salti: smettere di assumere i farmaci salvavita che prende da 20 anni, giacché la loro prescrizione darebbe il destro all’azienda per lasciarla a casa senza neppure la disoccupazione. E non è certo l’unica. “Siamo in tanti – racconta – . Soli davanti a un muro del pianto”.

Soli per un insidioso stigma sociale di cui poco si parla. In Italia, infatti, non si era parlato tanto di “lavoratori fragili” da che è esplosa la pandemia. Ma tocca riparlarne ciclicamente, perché tre anni dopo siamo da capo, con la differenza che durante l’emergenza erano state introdotte delle tutele che li sollevavano dal decidere tra salute e lavoro, stabilendo che l’assenza per malattia era equiparata al ricovero ospedaliero e come tale non computabile ai fini del comporto che prelude al licenziamento. La tutela per loro è però scaduta il 30 giugno 2022, mentre lo smartworking è stato prorogato solo fino al 31 marzo 2023 e solo per coloro che possono lavorare da casa, rigettando i primi in un limbo dove è il datore a scegliere per loro, gradando a piacere concessioni e punizioni: è l’azienda a dire se la mansione può essere svolta anche da casa e a quali condizioni, se ne esiste una alternativa compatibile con le limitazioni per ridurre il rischio infettivo, o se queste lo rendano inidoneo e dunque licenziarlo per giustificato motivo, senza il beneficio del sussidio di disoccupazione. E non c’è dubbio che stia succedendo a tanti, visto che l’unica sanzione introdotta per l’azienda che si oppone o ostacola la richiesta di lavoro agile consiste nella perdita della “certificazione della parità di genere”. Per la quale mia un’azienda ha chiuso o un titolare ha subito un processo. Non a caso i “super-fragili” insieme alla discriminazione tra malati di serie A e di serie B, denunciano ora di essere stati sacrificati sull’altare dei conti, con il datore nei panno del boia che fa il lavoro sporco di licenziarli, giocando col loro destino.

Le loro storie partono sempre da una patologia personale ma ne raccontano una ancora più grande, di dimensione sociale, culturale e politica, con manifestazioni che vanno dall’indifferenza alla diffidenza, fino alla crudeltà gratuita. Perfino quando il Covid, alla fine, se lo sono preso proprio lì, in azienda, dopo essere stati derisi dai responsabili di reparto e dai referenti sindacali interni per aver preteso l’uso di mascherine dai colleghi “sani”. Ma la politica tutto questo finge di non saperlo, benché la rabbia monti nelle fabbriche, nei gruppi social organizzati, nei rituali appelli alle istituzioni del loro Paese.

Le promesse mancante della politica
Il partito della Meloni, per dire, quando era all’opposizione solidarizzava con la loro causa. Nel programma elettorale aveva anche inserito un punto specifico per prometteva: “maggiori tutele per i lavoratori fragili”. Ma pur avendo un ministero della Disabilità non è stato di parola: nella Finanziaria 2023 non ha trovato coperture sufficienti a rinnovarle e i pochi che si erano spesi per questo ancora si dolgono della decisione. L’ ex senatore di Fdi, Massimiliano De Toma, per dirne uno, appena capita la solfa ha postato un videomessaggio sulla sua pagina Facebook in cui chiede pubblicamente “scusa” ai super-fragili. Al Fatto.it dice “continuerò a insistere, riusciremo, magari coi prossimi decreti”. Intanto però il tempo passa e i malati non ne hanno più, cadono uno a uno nel vuoto del cratere legislativo in cui superiori e datori li spingono.

C’è chi davanti al vuoto non ha più retto. Salvatore S. per 20 anni ha lavorato come mulettista in un’azienda della logistica di Torino. Nel 2019 viene colpito da un infarto nel 2019 e l’arrivo del Covid si era messo in malattia. Quando ha esaurito i 180 giorni è tornato ma l’azienda l’ha giudicato “inidoneo alla mansione,” benché in passato, dopo le dimissioni ospedaliere, avesse già svolto lavori di pulizia. “A un certo punto mi sono trovato a casa ma senza stipendio, con una patologia grave ma non tre, come diceva il decreto Brunetta per sfrondare i beneficiari. Il medico aziendale mi ha dichiarato inidoneo alla guida e l’azienda che non c’era altro per me. Così ho tagliato la testa al toro, per dignità e per necessità: mi sono dimesso io prima che mi licenziassero loro, almeno ho strappato una piccola buonuscita, nel secondo caso non avrei avuto né quella né la disoccupazione. Ho i requisiti per chiedere la pensione anticipata che arriverà tra un anno, sarà inferiore, ma meglio che questa umiliazione”.

“Ci trattano come un costo, così lo diventiamo”
Ancora lotta l’impiegata che risponde dallo spogliatoio, non si da pace della sua condizione. “Sono stata assunta oltre 20 anni fa come quota invalidi della legge 104, coi relativi benefici fiscali per l’impresa. Neppure in termini di contributi rappresento un costo, perché sono spalmati come credito fiscale su quelli dei colleghi. All’atto dell’assunzione sapevano benissimo che ero un po’ una mela bacata, che poteva avere problemi. Quando è esploso il Covid mi sono messa in malattia perché non avevo alternative, ma al rientro sconto un pregiudizio verso i fragili più forte di prima: non perdo i capelli e non mi manca una gamba, mi guadano e mi dicono che invece sembro sana, e vallo spiegare che ho una malattia autoimmune, che sono seguita dal centro asmatici e sono incontinente. Tutte cose che sono descritte nei verbali medici che attestano un’invalidità all’80%, tutte in conseguenza della terapia salvavita che ora ho smesso di fare per non perdere il posto. Vorrei che la politica che tutto questo ha permesso almeno sapesse. Vorrei dire al governo quanto è vigliacco questo subordinare diritti e tutele alle coperture, quando anche questo è falso: togliere le tutele ai fragili significa per tutti aumentare i costi sanitari, solo che nessuno potrà mai contabilizzare la maggiore spesa pubblica, oltre ai costi sociali di chi perde il lavoro, e dunque se ne fregano”.

Quando un infarto non basta
La storia non cambia quando la patologia “nasce” in azienda, cioè per il lavoratore assunto sano che a un certo punto si ammala gravemente. Le patologie e il relativo decorso negli anni sono ben noto al datore di lavoro, per il quale la condizione di “fragile” non rappresenta certo un “fulmine a ciel sereno”. E’ la storia di una lavoratrice di una grande azienda cartotecnica del Piemonte. “Tre anni dopo essere stata assunta emergono le prime avvisaglie di patologie molto gravi, la principale è l’artrite reumatoide, quella che ha ucciso Anna Marchesini”, racconta. Racconta anche che, esploso il Covid, ha subito angherie di ogni tipo dai propri superiori, per i quali farà causa per mobbing. E che alla fine quel che il legislatore si proponeva di evitare è accaduto anche a lei, come ad altri: “Quando sono rientrata ho chiesto lo smartworking e mi è stato negato con la complicità del sindacato interno. Veniva però concesso a una receptionst che, per definizione, dovrebbe accogliere i clienti e dunque essere in presenza. Quando ho chiesto una mansione diversa mi hanno messa alle pulizie, io che ho una laurea in economia. I colleghi non tenevano la mascherina FFP2 che io tenevo a mo’ di ventosa, pur in presenza di un fragile più esposto alle conseguenze dell’infezione. Sono andata tante volte a lamentarmi con il capo reparto e il sindacato interno: mi deridevano, e alla fine mi sono ammalata ed è stato un inferno. Non solo facevo chemioterapia e prendevo gli immunosoppressori, dovevo lottare con le flebo contro un virus al quale altri mi hanno esposta, per che cosa? Per mera crudeltà, mi scusi ma altre parole non le trovo. Il disimpegno del legislatore, della politica e dei sindacati si è trasformato in una pistola alla tempia del lavoratore, e se il datore è sadico o gli stai antipatico preme il grilletto per lei togliendole anche un problema”.

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