Non fingete di averla vista più volte per farvi belli col vicino di poltrona. E nemmeno di conoscerla a menadito come le opere di Verdi o Puccini. “Boris Godunov”, il capolavoro di Modest Musorgskij che il 7 dicembre apre la stagione del teatro alla Scala di Milano, è un titolo internazionale del repertorio russo rappresentato in tutto il mondo. Ma non così familiare al grande pubblico. Nel tempio milanese della lirica è stato rappresentato 25 volte, di cui solo una a Sant’Ambrogio come opera inaugurale.

Ma c’è di più. La versione scelta dal direttore Riccardo Chailly, che i giovani under 30 hanno già visto alla Primina del 4 dicembre, è l’originale del 1869. Quella che all’epoca non piacque al committente: il teatro Imperiale di San Pietroburgo (oggi Mariisnkij). Perché? Per i tratti innovativi e realistici della drammaturgia, il linguaggio visionario della musica, l’abbandono delle forme chiuse dell’opera tradizionale. Il compositore trae ispirazione dall’omonimo dramma di Puškin pubblicato nel 1831 e dalla “Storia dello Stato russo” di Alexander Karamzin per raccontare la brutalità del “potere che manipola il popolo” e “la ricerca della verità opposta alla censura”. E scrive di suo pugno il libretto. Kasper Holten, il regista che firma la nuova produzione, ne coglie il contenuto universale e allarga la riflessione alle vittime di tutti i poteri. Ieri come oggi.

Al centro di “Boris Godunov”, interpretato dal basso russo Ildar Abdrazakov, c’è una vicenda cupa, attuale, profondamente umana. Cosa racconta? Siamo in Russia durante il cosiddetto “periodo dei torbidi” (1598-1614), gli anni di anarchia compresi tra la morte di Ivan il Terribile e l’avvento dei Romanov.

Ecco la trama. Zarevič Dimitri, figlio di Ivan il Terribile ed erede al trono di Russia, è stato assassinato in circostanze misteriose. Guardie e sacerdoti esortano il popolo ad acclamare il boiardo Boris Godunov come nuovo sovrano e a manifestare in futuro la sua riconoscenza. Boris viene incoronato zar nella piazza delle cattedrali del Cremlino sostenuto dalla folla entusiasta. Intanto nella cella del monastero di Êudov l’anziano monaco Pimen sta terminando di scrivere la sua cronaca delle vicende in cui versa il Paese. Accanto a lui c’è il novizio Grigorij, a cui Pimen decide di raccontare dell’assassinio del piccolo Dimitri di cui lui stesso è stato testimone. I sospetti gravano su Boris Godunov. E’ il mandante. Grigorij allora, che ha la stessa età di Dimitri, decide di fuggire dal monastero e di fingersi lui. L’obiettivo? Ascendere legittimamente al trono. Durante la fuga riesce a evitare l’arresto delle guardie imperiali e a scappare oltre i confini per preparare la conquista. Nel frattempo Boris, informato della comparsa di un impostore che si fa passare per il giovane Dimitri scampato al massacro, comincia a cedere a rimorsi e a soffrire di allucinazioni. Arriva persino a vederne il fantasma. Le ultime scene narrano i fatti accaduti nel 1604: i figli di Boris Godunov, Xenia e Fëdor, sono cresciuti. Lo zar governa ormai un Paese stremato dalla carestia e dalla povertà dove le voci sul delitto commesso si fanno sempre più ossessive e le armate guidate da Grigorij si fanno strada. Perseguitato dallo spettro di Dimitri, dal senso di colpa e dai rimorsi per aver ucciso un bimbo innocente, Boris precipita nella follia e muore dopo aver invocato il perdono di Dio. Boris è un assassino. Ma è un uomo. La sua scalata al potere ricorda quella del Macbeth verdiano con cui il teatro alla Scala ha inaugurato la stagione scorsa. Dimensione storica e personale s’intrecciano come in un’opera di Shakespeare anche in “Boris Godunov”. Lo stesso Puškin per scriverla si è ispirato ai grandi drammi storici shakespeariani e alla loro profondità introspettiva. Che diventa rappresentazione del senso di colpa attraverso la materializzazione di fantasmi, reali o immaginati.

Articolata in sette scene, in un allestimento di grande bellezza estetica, l’opera è divisa in due parti ben distinte. Sottolineate dall’inserimento di un intervallo voluto dal regista Kasper Holtan. Qual è il motivo? La prima parte esprime il punto di vista esterno. Nelle prime quattro scene si assiste alla cerimonia pubblica dell’incoronazione come mezzo propagandistico per trascinare il popolo, alla sovversiva testimonianza di verità di Pimen e alla decisione di Grigorij di stravolgerla per usurpare il potere. La seconda invece riflette il punto di vista interno. Le restanti tre scene, che si svolgono sette anni dopo, fanno luce sul percorso intimo interiore di Boris, sul suo senso di colpa e sull’insorgere della follia nella sua mente. La Storia e la sua narrazione. Da un lato la manipolazione del popolo da parte del potere, dall’altro la ricerca della verità e la sua libertà di esprimersi. In scena per la prima volta nel 1909 alla Scala, nel 1979 “Boris Godunov” è la seconda opera non italiana a inaugurare la Stagione dopo il Fidelio diretto dal Karl Böhm nel 1974. In termini di concezione e linguaggio musicale è considerata il capolavoro di Musorgskij, con una drammaturgia che i ricercatori paragonano alla sceneggiatura di un film.

Una curiosità. Nel 1869 Musorgskij presenta alla commissione dei Teatri imperiali di San Pietroburgo quest’opera radicalmente innovativa. Non contiene un intreccio sentimentale, non ha una parte femminile di rilievo. Non prevede neppure un tenore eroico o amoroso. La commissione lo respinge con sei voti contrari su uno favorevole. Il compositore procede quindi, tra il 1871 e il 1872, a una revisione dell’opera con Rimskij-Korsakov. Fra le scene aggiunte lo spettacolare “atto polacco” in cui una serie di canzoni popolaresche interviene a smorzare la cupezza generale. E’ questa la versione che determinerà il successo dell’opera. Ma è il cosiddetto Ur-Boris o Boris originario, denso, cupo, profondo, ad andare in scena il 7 dicembre al Piermarini. Aspro, duro, concentrato. Rifiutato all’epoca dalla committenza del Teatro. Altri tempi. “Il mio Boris? E’ con l’anima e con il cuore – spiega Ildar Abdrazakov – con il rimorso di aver ucciso un bambino. Questo pensiero è costante in lui”. E conclude: “Per me è un ruolo importantissimo, non di canto ma di anima e fuoco: vengono prima le parole e poi il canto”. “Boris Godunov” è trasmesso da Rai Cultura in diretta su Rai1e in Prima Diffusa in tantissimi luoghi della città. La durata? 2 ore e 50 minuti.

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