di Nathan Bonnì

Molte persone non binary e transgender non possono cambiare nome e genere sui documenti a causa dei requisiti restrittivi e obsoleti della legge 164/82, che attualmente non permette la rettifica dei documenti a chi non ha fatto un percorso di medicalizzazione del corpo e a chi ha un percorso non conforme alla dicotomia donna/uomo. Anche se non si è in possesso di documenti rettificati è necessario, per una vita piena e appagante, interagire in contesti necessari per l’affermazione personale e professionale: i percorsi di studio e la carriera lavorativa.

Per permettere che ciò avvenga nel rispetto dell’identità della persona, esiste la Carriera Alias, una procedura di carattere burocratico che permette alle persone di genere non binario e transgender di associare a tutti i documenti pubblici il nome d’elezione (quello scelto dalla persona e con cui si sente a suo agio) e di collegare quest’identità pubblica ai dati anagrafici, che sono necessari per alcune pratiche, come i pagamenti, ma che non vengono divulgati. Ciò avviene nei percorsi scolastici o universitari ma anche in alcune aziende e multinazionali illuminate, che sono ben consapevoli che un lavoratore, o una lavoratrice, felice può dare il meglio di sé, essendo per la propria azienda una preziosa risorsa.

Per quanto riguarda gli atenei, ormai quasi tutti prevedono un sistema informatico per applicare la Carriera Alias, ma vale la pena di ricordare l’Università degli Studi di Torino, pioniera, nel 2003, nel fornire il libretto col genere d’elezione, seguita a ruota da prestigiose città del Nord (Padova, Milano, Verona) e del Sud Italia (Catania, Palermo e Bari). Rimane ancora un territorio di attivismo il “come” richiedere la Carriera Alias, perché non tutti gli atenei accettano l’autodeterminazione e molti di essi chiedono ancora una certificazione esterna che “attesti” l’identità della persona, o addirittura chiedono un percorso medicalizzato.

Anche nel mondo del lavoro è necessario che il (o la) professionista possa lavorare in una situazione di comfort, per potersi concentrare sulle competenze e non diventare oggetto di attenzione morbosa di chi pone domande sul suo nome o sul suo aspetto. Molte multinazionali, ma anche molte aziende italiane, ormai, scelgono di mettere a proprio agio il proprio personale garantendo riservatezza sui dati anagrafici e creando un’identità alias che comprende il nome sui buoni pasto, sulla mail, sul badge e sui sistemi gestionali che disciplinano le comunicazioni tra colleghi, capi e clienti.

A tale proposito, suona rivoluzionaria e progressista la mozione, recentemente approvata a Milano, della consigliera comunale Monica J. Romano, storica attivista transgender e non binaria, che ha creato il “registro di genere”, che dona la possibilità, alle persone transgender e non binarie, anche non med (non in un percorso di medicalizzazione), di richiedere il nome d’elezione sui documenti che riguardano i servizi comunali (biblioteche, mezzi pubblici e altro) e poter “fruire” la città esattamente come gli altri cittadini e cittadine, senza imbarazzi e umiliazioni. Inoltre la mozione tutela anche i lavoratori e le lavoratrici comunali, che potranno avere nome e genere sui documenti lavorativi, per interagire in modo produttivo e confortevole nelle relazioni lavorative.

Milano è un faro per tante altre città che hanno mostrato interesse per l’iniziativa della consigliera milanese: non è la prima volta che Milano anticipa diritti poi approdati in altre metropoli, piccole città e infine al nazionale. Si pensi al registro delle unioni civili, poi arrivato in altre città e che, piano piano, ha portato alla Legge Cirinnà. La speranza è che Milano e le altre città illuminate facciano da puntello in modo che arrivi ben presto una legge nazionale a tutela dell’affermazione delle persone non binarie.

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